domenica 17 ottobre 2010

Siamo fratelli?



 Alla crudele  e spietata violenza, all’orrore della morte che ci offende, al silenzio sconvolgente, al baratro, alcova dell’umanità dolente,  all’urlo bestiale dell’uomo che non è più tale,  contrapponiamo una  poesia che in ogni parola e in ogni espressione è contemporanea alla nostra irragionevole società:

UOMO DEL MIO TEMPO
Sei ancora quello della pietra e della fionda,
uomo del mio tempo. Eri nella carlinga,
con le ali maligne, le meridiane di morte,
-t'ho visto- dentro il carro di fuoco, alle forche,
alle ruote di tortura. T'ho visto: eri tu,
con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,
senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora,
come sempre , come uccisero i padri, come uccisero
gli animali che ti videro per la prima volta.
E questo sangue odora come nel giorno
quando il fratello disse all'altro fratello:
-Andiamo ai campi- E quell'eco fredda, tenace,
è giunta fino a te, dentro la tua giornata.
Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue
salite dalla terra, dimenticate i padri:
le loro tombe affondano nella cenere,
gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore.

E se  il mondo fosse limpido e cristallino come le acque di questo mare? Uniti, si può.



Francisco José de Goya y Lucientes (Fuendetodos, 1746 -1Bordeaux, 1828), Il sonno della ragione genera mostri 1797, acquaforte, Biblioteca Nacional de Espaňa, Madrid

Salvatore Quasimodo (Modica, 1901 – Napoli, 968), Uomo del mio tempo in Giorno dopo giorno

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