mercoledì 9 dicembre 2020

Il sentimento del dolore. Affinità tra Pascoli e Munch.

                                                                            Malinconia

Quante riflessioni ci possono suggerire un quadro o una poesia e in convergenza farci immedesimare, rendendo unico il dolore di ogni tempo!.

È bellissimo rileggere e interpretare  la realtà attraverso la voce di poeti e di artisti e cogliervi il sentimento del dolore che mai come in questo momento ci accomuna. Un ritornare indietro, verso un tempo felice, quando tutto è attesa e nulla lascia presagire sventure. La poesia di Pascoli è  disvelamento di ciò che è nelle cose, anche in quelle più semplici della vita di ogni giorno, gioiose o tragiche. In  convergenza  è l’arte di Munch, un mezzo per l’artista, per gridare al mondo il  proprio sentire. Le loro opere, fortemente  connotate, sono la lettura della realtà  vissuta, nel preciso contesto in cui maturano, del loro dramma, provati fin da piccoli da numerosi lutti familiari. La poesia La voce è la rappresentazione visiva della condizione esistenziale di Pascoli. È per il poeta un viaggio a ritroso nella propria vita, un vaglio delle circostanze avverse, un bisogno di ritrovare persone, affetti e luoghi, la rincorsa di un sogno impossibile, espresso con parole che fotografano il suo stato d’animo. È  eco di voci del passato, spinte propulsive al ricordo e alla riflessione in un presente spesso drammatico. Sembra un colloquio quello del poeta con la voce che lo riporta bambino, alla sua infanzia felice, ma il dialogo si muta in  soliloquio e poi in un  monologo,  in cui emerge  struggente la rievocazione di un tempo lontano e di una voce salvifica:  C’è  una voce nella mia vita,/che avverto nel punto che muore; /voce stanca, voce smarrita, col tremito del batticuore://voce d’una accorsa anelante, /che al povero petto s’afferra/ per dir tante cose e poi tante,/ ma piena ha la bocca di terra://tante tante cose che vuole /ch’io sappia, ricordi, sì…sì…/ ma di tante tante parole /non sento che un soffio…Zvanì…//Quando avevo tanto bisogno/ Di pane e di compassione,/ che mangiavo solo nel sogno,/svegliandomi al primo boccone;//una notte, su la spalletta/ del Reno, coperta di neve,/ dritto e solo (passava in fretta l’acqua brontolando, Si beve?);//dritto e solo, con un gran pianto/ d’avere a finire così,/ mi sentii d’un tratto d’accanto quel soffio di voce… Zvanì …// Oh! La terra, com’è cattiva!/ La terra, che amari bocconi!/ Ma voleva dirmi, io capiva:/ -No…no… Di’ le devozioni!// Le dicevi con me pian piano,/ con sempre la voce più bassa:/ la tua mano nella mia mano:/ ridille! Vedrai che ti passa.// Non far piangere piangere/ (ancora!) chi tanto soffrì!/ Il tuo pane, prega il tuo angelo/ Che te lo porti… Zvanì…// Una notte dalle lunghe ore/ (nel carcere), che all’improvviso/ dissi- Avresti molto dolore,/ tu, se non t’avessero ucciso,// ora, o babbo!- che il mio pensiero,/ dal carcere, con un lamento,/ vide il babbo nel cimitero,/ le pie sorelline in convento://e che agli uomini, la mia vita,/ volevo lasciargliela lì…/ risentii la voce smarrita/ che disse in un soffio… Zvanì…// Oh! La terra come è cattiva!/ Non lascia discorrere, poi!/ Ma voleva dirmi, io capiva:/-Piuttosto di’ un requie per noi!// Non possiamo nel camposanto/ Più prendere sonno un minuto,/ chè sentiamo struggersi in pianto/ le bimbe che l’hanno saputo!//Oh! La vita mia che ti diedi /Per loro, lasciarla vuoi qui? /Qui, mio figlio? Dove non vedi/Chi uccise tuo padre… Zvanì?...-// Quante volte sei rinvenuta/ Nei cupi abbandoni del cuore,/ voce stanca, voce perduta,/ col tremito del batticuore:// voce d’una accorsa anelante/ che ai poveri labbri si tocca/ per dir tante cose e poi tante;/ ma piena di terra ha la bocca:// la tua bocca! Con i tuoi baci,/ già tanto accorati a quei dì!/ a quei dì beati e fugaci/ che aveva i tuoi baci… Zvanì …// che m’addormentavano gravi/ campane col placido canto,/ e sul capo biondo che amavi,/ sentivo un tepore di pianto!// che ti lessi  negli occhi, ch’erano/ pieni di pianto, che sono/ pieni di terra, la preghiera/ di vivere e d’essere buono!// Ed allora, quasi un comando,/ no, quasi un compianto, t’uscì/ la parola che a quando a quando/ mi dici anche adesso… Zvanì …(La voce, da Canti di Castelvecchio)

La voce è dunque il racconto della condizione esistenziale del poeta, drammaticamente vissuta, che trova l’unica ancora di salvezza in quel diminutivo, Zvanì, appena percettibile che lo mette al riparo dalla tragedia. C’è nei versi una capacità di andare ben oltre le cose e di scoprire le fragilità umane e l’indifferenza della società. Le parole esprimono il bisogno malcelato di ritornare al mondo perduto del nido, di rifiutare la violenza e l’ingiustizia di cui è stato vittima innocente il padre, di desiderare il ritorno all’infanzia felice per dare corpo a quella voce che ora è solo un soffio.  La poesia è intessuta di elementi lessicali che si ripetono: voce, bocca, soffio, terra, pianto; di anafore “tante tante cose”, “tante tante parole, “Non far piangere piangere piangere”, di antitesi “occhi, ch’erano/ pieni di pianto, che sono/ pieni di terra”, un gioco espressivo per sottolineare sentimenti, pensieri, stati d’animo, che vengono articolati  dal poeta ma che si tramutano in un silenzio profondo dove non è percepibile nessun suono. Lo stato esistenziale del poeta emerge nei toni drammatici che  esprimono il suo dolore per ciò che sarebbe potuto essere e che non è stato, il senso di solitudine che lo investe da piccolo, quando la vita gli nega gli affetti, il peso della violenza che avverte piombargli addosso e che nelle scelte insane degli uomini sente che lo travolgerà. La poesia, in espansione, diventa riflesso inconsolabile di un’umanità che prende coscienza della propria condizione. Anche il poeta ne è consapevole. Composta nei primi mesi  del 1902, come attesta la lettera al Caselli del 14 marzo, in cui si dice tra l’altro: "questa poesia, non la leggere prima: ti farebbe male a leggerla, come a me, a scriverla", fu pubblicata nella prima edizione dei Canti (aprile 1903). Sulla reazione emotiva indotta in lui dalla propria poesia il Pascoli ritorna in un’altra occasione, scrivendo a Maria il 4 luglio 1903: “Stamane ho rimandate al Marchi le pagine che avevo dei Canti.  Avevo una grande malinconia solitaria. Ho guardato quei fogli…che  singulti alla Voce! Ma chi ha fatta quella poesia?”.

 

                                                                              L'urlo

In convergenza anche  in Munch, incombe l’idea della morte. La morte del padre è per  Munch (come per Pascoli) un colpo da cui non si riprenderà come egli stesso scrive: “ E io vivo coi morti; mia madre, mia sorella, mio padre, lui soprattutto. Tutti i ricordi, le minime cose mi ritornano a frotte. Lo rivedo così come lo vidi, per l'ultima volta quattro mesi fa quando mi ha detto addio sulla banchina; eravamo un po' timidi nei confronti l'uno dell'altro, non volevamo tradire la pena che la separazione ci causava. Quanto ci amavamo malgrado tutto, quando si tormentava la notte per me, per la mia vita, perché non potevo condividere la sua fede”. Una visione tragica della vita che mai lo abbandonerà e che egli renderà protagonista della sua arte."L'urlo" è il   simbolo dell'angoscia e dello smarrimento dell’intera umanità. Una situazione che nasce da un’esperienza di vita vissuta: l’artista si trovava a passeggiare con degli amici su un ponte della città di Nordstrand (oggi quartiere di Oslo), quando venne pervaso dal terrore come egli stesso scrive: « Camminavo lungo la strada con due amici quando il sole tramontò, il cielo si tinse all'improvviso di rosso sangue. Mi fermai, mi appoggiai stanco morto ad un recinto. Sul fiordo neroazzurro e sulla città c'erano sangue e lingue di fuoco. I miei amici continuavano a camminare e io tremavo ancora di paura... e sentivo che un grande urlo infinito pervadeva la natura. ». Quell’urlo colpisce chi guarda l’opera e vi legge una condizione di vita reale: l’indifferenza e l’alienazione. Le  due figure che appena s’intravedono lungo il ponte, non comprendono lo stato d’animo dell’amico, anzi ne sono estranee  e si allontanano. La bocca spalancata sembra emettere dei suoni che sconvolgono il paesaggio, con le linee curve e i colori forti, espressioni dell’interiorità stessa dell’uomo, il tutto accentuato dal volto deformato come un teschio e dal corpo apparentemente privo di colonna vertebrale. La funzione comunicativa è fortemente espressiva. La forma, le linee, i colori, tutto risponde a precise connotazioni simboliche;  l'uso della luce dà immediatezza alla scena rappresentata e dà l’impressione di una fotografia che coglie l’evento nel momento più drammatico. Ambedue, da piccoli, furono colpiti da numerosi lutti familiari; un dramma che Munch esprime mediante l'uso di colori violenti e irreali, linee sinuose e continue, immagini deformate e Pascoli con l'uso di una scelta lessicale inusuale. Il rapporto di Pascoli con Munch si coglie nella capacità di rappresentare in sincronia con la parola e i colori l’esistenza cupa  dell’uomo che grida  al mondo la sua angoscia. Quel grido diventa in entrambi voce, singulto, lamento, pianto, disperazione… Pennellate infinite, colori pastosi, strade senza meta; una solitudine che si spegne nel grido di dolore informe. I colori sono per Munch ciò che la parola, l’iterazione dei termini, l’uso costante dell’aggettivo sono per Pascoli. Una pittura e una poesia di forte impatto emotivo, capaci di indurci a un’indagine speculare su di noi, sull’uomo e sulla realtà che ci circonda.

 

 

mercoledì 25 novembre 2020

Contro la violenza: dignità e amore


 

Le donne non chiedono di essere festeggiate ma  rispettate ogni giorno e ogni momento della propria vita.

Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale / e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino. / Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio. / Il mio dura tuttora, nè più mi occorrono / le coincidenze, le prenotazioni, / le trappole, gli scorni di chi crede / che la realtà sia quella che si vede.

Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio / non già perché con quattr'occhi forse si vede di più. / Con te le ho scese perché sapevo che di noi due / le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate, / erano le tue. (Eugenio Montale, Satura)

 

Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio”, dice Montale alla sua Drusilla, dopo la sua  morte, nell’iter di una vita in cui il poeta riconosce che solo gli occhi dell’amata, sebbene offuscati, hanno saputo cogliere la realtà e lo hanno guidato. Scendere le scale, dandosi il braccio è simbolo di una vita vissuta a due  e del sostegno reciproco che due persone si scambiano con rispetto e amore.  

Poche parole, pochi versi fanno della poesia lo strumento migliore per esprimere il sentimento dell’“amore” che ogni uomo dovrebbe sentire nei confronti della donna, madre di vita dal primo all’ultimo respiro di cui l’uomo è debitore.

Dolcezza, amore e tenerezza si fondono nei versi dove la perdita della propria metà sconvolge la vita stessa del poeta, ma chiara è la loro concretezza vissuta in vita e lo scendere insieme i gradini  si veste di quel desiderio di cui ogni donna vorrebbe sentirsi ammantata  in vita,  ma che viene troppo spesso soffocato da una crudeltà che non trova né logica, né giustificazione nè parole ma solo orrore per l’uomo che, privo di razionalità, si definisce tale.

 

sabato 7 novembre 2020

Il valore della parola e della cultura

 

 Sandro Botticelli, Giovane introdotto tra le Arti Liberali, Musée du Louvre, Parigi

 

Quante cose s’imparano ascoltando i ragazzi!  Dalle loro espressioni si comprende  che  la scuola è il luogo dove si semina e nel tempo si raccoglie, perché  i ragazzi sanno recepire e poi donare.

È a scuola che si formano le coscienze, che si impara a ragionare con consapevolezza, che si apre lo sguardo sul mondo, che si analizzano e si comparano le diversità che diventano fonte di ricchezza. È a scuola che i ragazzi   acquisiscono  il significato di cultura,  ne comprendono il senso in un contesto ampio e diversificato e  la  definiscono, utilizzando la parola che combinata, diventa riflesso del loro pensiero. È a scuola che si impara a rispettare la parola, a coltivarla, ad averne cura come preziosità, a nutrirla di verità.

A scuola si respira cultura.

Quante cose avevamo imparato insieme con il progetto “Interazioni”! Ed è stato gratificante, a conclusione del lavoro, leggere le seguenti espressioni che denotano uno studio attento e consapevole.

La scuola, maestra  di esperienze, dona il  respiro della vita.

Il progetto aveva  donato ai ragazzi, nell’età dell’adolescenza, feconda  di curiosità,  la capacità di fare della cultura, lo strumento per una crescita individuale e collettiva (base essenziale per l’evoluzione della società), e la capacità di spingersi oltre nelle loro espressioni: Un paese senza cultura è come una notte senza luna. Un uomo senza cultura è come un manichino senza volto. La cultura  è l’elemento fondante di una nazione. La cultura è il respiro e l’anima di un popolo. Ogni manifestazione del pensiero è cultura. La cultura è l’identità di un popolo. La cultura è ricchezza. La cultura produce ricchezza. Lo Stato che investe in cultura è lungimirante. Lo Stato che taglia la cultura è retrogrado. Senza cultura non c’è storia. Senza ricerca non c’è progresso. La cultura, sia a livello individuale che collettivo è il  mezzo di difesa più efficace ed è per questo l’arma che fa più paura ai governanti. Lo Stato che privilegia la cultura, manifesta il suo affetto per il popolo ed è definito progressista. Lo Stato che non pone la cultura al primo posto nella sua crescita è poco attento, poco lungimirante, poco consapevole, indifferente all’evoluzione del proprio paese. La cultura è lo strumento per insegnare, istruire, formare, denunciare, condannare, esortare,  unire e tramandare. (Espressioni  dei ragazzi nell’ambito del   progetto “Interazioni”).


 

 
Gentile da Fabriano e bottega. Raffigurazione della Grammatica

Espressioni che elevano il senso della cultura e l’importanza della scuola, come centro di vita sociale dove tutti diamo ma essenzialmente impariamo.

 

 

giovedì 22 ottobre 2020

Studiare con l’arte: Giovanni Pascoli (seconda parte)

                                                                   Il seminatore di Van Gogh

Dalla sofferenza privata al dolore universale: la natura come simbolo

In età ormai matura, il poeta tenta di ricostruire il nido familiare. La campagna intorno al nuovo nido di Castelvecchio di Barga, che diventa la sua nuova patria (Maria, dolce sorella: c’è stato un tempo che noi non eravamo qui?), gli fornisce nuova materia poetica, collegandosi idealmente con la campagna intorno a S. Mauro di Romagna. La scelta del tema campestre o paesistico non avviene indipendentemente dal trauma che condiziona tutta la sua vita, sia perché al paesaggio campestre sono legati i ricordi della sua adolescenza felice sia  perché da quel paesaggio egli ora si sente definitivamente escluso. La frattura definitiva tra passato e presente implica la frantumazione delle rievocazioni in una serie di impressioni apparentemente slegate,  le immagini diventano il segno della felicità perduta e si caricano di un valore simbolico. La natura prende vita nelle forme verbali che la identificano e comunica con vario cromatismo realtà e stati d’animo, per cui il frinire delle cavallette diventa il suono di “finissimi sistri d’argento” e rievoca un’immagine di morte. Un aratro senza buoi in un campo allude alla solitudine: Nel campo mezzo grigio e mezzo nero / resta un aratro senza buoi, che pare / dimenticato, tra il vapor leggiero. / E cadenzato dalla gora viene / lo sciabordare delle lavandaie / con tonfi spessi e lunghe cantilene (Lavandare) e richiama  Il ponte levatoio in Arles con un gruppo di lavandaie di  Van Gogh. La parola poetica alterna le sensazioni di silenzio, solitudine, abbandono della prima strofa ai rumori, canti, voci della seconda, per riflettere specularmente nella terza, attraverso il madrigale (quando partisti, come son rimasta! / come l’aratro in mezzo alla maggese) l’immagine dell’aratro in quella della donna abbandonata. Se il -nido- si associa al tema della casa come culla, protezione, sicurezza, la -siepe- diventa il baluardo del nido, disegna il confine tra il dentro,  percepito come rassicurante, e il fuori, che rappresenta il pericolo, l’insidia, la violenza. Non limite visivo che suscita la meditazione sugli interminati / spazi… e sovrumani / silenzi, e profondissima quïete di leopardiana memoria, ma siepe che al campo sei come l’anello al dito…/ …che il passo chiudi co’ tuoi rami / irsuti al ladro…./ verde muraglia della mia città…/ immobile al confine…. / fuori, dici un divieto acuto come spine / dentro, un assenso bello come fiori (La siepe). Anzi, la siepe / dell’orto disegna una barriera difensiva contro la realtà di sofferenza (Nebbia) e dialoga con la siepe del camposanto dov’è sepolta la madre del pellegrino, da cui egli taglia il bordone che lo accompagna tutta la vita (Il bordone) in relazione a L’orto di A. Sisley.

 La novità del linguaggio e la percezione del mistero: Pascoli utilizza il linguaggio fonosimbolico dell’onomatopea: chiù dell’assiuolo, gre gre di renelle, don don di campane …, e i linguaggi tecnici, speciali: il critico G. Contini individua in queste scelte il sintomo di «un rapporto critico» fra «l’io e il mondo». Pascoli proclamò il fallimento della scienza positiva, che non era riuscita a squarciare il mistero e a sconfiggere la morte. Sempre Contini afferma: «Quando si usa un linguaggio normale, vuol dire che dell’universo si ha un’idea sicura e precisa, che si crede in un mondo certo…in un mondo gerarchizzato dove i rapporti stessi… tra l’ uomo e il cosmo sono determinati, hanno dei limiti esatti». Ma Pascoli ha rotto la frontiera tra determinato e indeterminato: la precisione del tessuto linguistico rappresenta la rete entro cui imbrigliare una realtà che sfugge, che diventa incomprensibile e che solo il poeta-fanciullo può cogliere nelle sue valenze più nascoste, disvelandone gli aspetti illusori. Così il «pianto di stelle» nella notte di San Lorenzo sancisce la distanza tra il «Cielo, dall’alto dei mondi / sereni, infinito, immortale» e la terra, l’esperienza concreta degli uomini, «quest’atomo opaco del Male»: la sofferenza individuale si rispecchia nella tragedia dell’esistenza umana a cui la natura resta indifferente, immagine che richiama Notte stellata di V.Van Gogh. Il quadro è per l’artista ciò che la poesia è per Pascoli: un pretesto per stabilire il proprio rapporto con la realtà e le cose. L’opera fu composta dopo una profonda crisi esistenziale: il turbinio vorticoso delle pennellate testimonia l’angoscia dell’artista e la profondità con cui egli apprezza la bellezza del mondo «Sarebbe così bello / questo mondo odorato di mistero» (Colloquio)  «Ma bello è questo poco di giorno / che mi traluce come da un velo» (L’ora di Barga). La nostalgia per un’adesione positiva al reale, nonostante la sua sostanziale inconoscibilità (confronta la «fronte / bianca di sfinge» in Paese notturno), simbolo del mistero della vita, rimane una tensione presente nell’animo del poeta e prevale la sensazione di inquietudine e mistero nella rappresentazione della realtà:Venivano soffi di lampi / da un nero di nubi laggiù; / veniva una voce dai campi: / chiù…(L’assiuolo). La prepotente sinestesia (soffi di lampi) e l’oggettivazione della qualità cromatica (nero di nubi) ben sintetizzano il pericolo imminente, a cui fa eco la voce dell’ assiuolo, che si trasforma  prima in un singulto e poi in un pianto di morte.

Ancor più in Scalpitio il risuonare di un galoppo da remote lontananze, induce un moto di sgomento. L’annuncio del temporale (nell’omonima poesia), un bubbolio lontano, fa presentire qualcosa di tragico che sta maturando misteriosamente nel grembo della natura; all’effetto fonosimbolico anche in questo caso si unisce il forte contrasto cromatico, quasi espressionistico: rosseggia, affocato, nero di pece, stracci di nubi chiare, tra il nero, un casolare, un’ala di gabbiano. La situazione drammatica si accentua nella poesia Il lampo, in cui la natura acquista i connotati tragici della sofferenza umana: la terra ansante, livida, in sussulto; / il cielo ingombro, tragico, disfatto. E la tragicità è accentuata dal pauroso silenzio in cui l’azione avviene, il tacito tumulto, contrastato però dalla violenza delle allitterazioni di suono duro che percorrono tutto il testo. L’apparizione della casa, rapida come suggerisce l’asindeto (apparì sparì) viene associata all’occhio che riesce per un attimo a guardare nel mistero che ci circonda, rivelando una realtà tragica (la notte nera). La nebbia costituisce il simbolo della visione velata del mistero profondo che nasconde la realtà: E guardai nella valle: era sparito / tutto! sommerso! Era un gran mare piano, / grigio, senz’onde, senza lidi, unito. / E ancora: …Vidi,  e più non vidi, nello stesso istante. (Nella nebbia). Anzi, la nebbia diventa sinonimo di difesa contro la consapevolezza del dolore del vivere: Nascondi  le cose lontane, / nascondimi quello ch’e morto! / le cose son ebbre di pianto! (Nebbia), nebbia che cela come Nebbia di Cecconi. Per il critico G. Contini, Nebbia è una poesia «che può essere perfettamente citata come  allegoria generale del mondo pascoliano». In realtà, Pascoli giunge a indicare, attraverso la parola poetica, una via d’ uscita: se la vita dell’ uomo è segnata dal dolore, dal mistero, dalla morte e si è smarrito il senso della provvida sventura non resta che il legame di fraternità tra simili: Uomini, pace! Nella prona terra / troppo è il mistero; e solo chi procaccia / d’aver fratelli in suo timor, non erra (I due fanciulli).

 

 


                                                                           L’orto di A. Sisley

Conclusioni: Con questo lavoro, abbiamo tentato di costruire un percorso sinergico tra linguaggio poetico e linguaggio figurativo, poiché la Storia dell’Arte non è materia curricolare nel nostro Istituto Tecnico ma grazie a questa esperienza, abbiamo avuto l’occasione di arricchire l’orizzonte delle nostre conoscenze con gli elementi pittorici, cogliendone l’immediatezza espressiva attraverso la pittura dei Macchiaioli e quella en plein air degli Impressionisti, per approdare a quella dei Simbolisti che, con l’ uso particolare del colore, caricano la realtà di un proprio significato e comunicano, come fa Pascoli con il linguaggio poetico, la loro visione del mondo.

Questo percorso ci ha consentito di conoscere Pascoli più da vicino e di scoprirne la profonda sensibilità di uomo e di poeta. Scoprire, in fondo, che Pascoli non è solo il poeta “lacrimoso”, come spesso è stato definito, ma un uomo che, attraverso la poesia, denuncia una società che, allora come oggi, disattende le attese, specialmente dei giovani. Noi ci siamo riconosciuti nelle ansie e nel disagio esistenziale dei momenti più bui della sua vita, soprattutto nello scontro tra illusione e realtà, una verità fortemente esplicitata da altri poeti prima e dopo di lui. Ma abbiamo anche colto i bagliori di una vita che deve e può continuare: alla fine di Temporale (Myricae) troviamo l’immagine dell’ala di gabbiano, che analogicamente col casolare si staglia sul nero di pece. Similmente in Temporale (Canti di Castelvecchio) appare una chioccia: …passa sotto / l’acquazzone una chioccia. / Appena tace il tuono,  / …tra il vento e l’ acqua, buono, s’ode quel coccolare / co’ suoi pigolii dietro. Ancora una volta, la natura (in questo caso il gabbiano e la chioccia) allude simbolicamente a una realtà profonda, ma indicando una possibilità positiva. Per questo ci sembra in sintonia chiudere la nostra riflessione con Il seminatore di Van Gogh, in cui i colori esprimono la forza vitale, il seminatore semina speranze per una vita migliore, mentre un enorme sole diventa il simbolo di spiritualità e di vita.

lunedì 5 ottobre 2020

Studiare con l'arte: Giovanni Pascoli


Per chi ama l’arte e la poesia, presentiamo il progetto “Giovanni Pascoli, tra parole e immagini”:

realizzato a scuola nel 2008 con la prof. Fiorella Menna e gli studenti del biennio dell’ITIS “A. Meucci”.

 È bello studiare con l’arte perché rende visibili realtà, sensazioni ed emozioni. Bisogna avvicinare i ragazzi all’arte, patrimonio inestimabile di bellezza, armonia e conoscenze attraverso un gioco di ricerca e curiosità: Quanti dubbi, quante delusioni, quanti sogni sperimentiamo ogni giorno; quante difficoltà e incomprensioni, per qualcuno anche forti traumi, tanto più forti in quanto vissuti in un’età delicata, come l’adolescenza, e ancor più fragile oggi, per mancanza di punti di riferimento sicuri. Per Pascoli l’origine della sua sofferenza ha radici profonde, legate a traumi familiari come i numerosi lutti, le delusioni e le ingiustizie patite. La persona a cui il poeta è più affezionato è la madre, di cui delinea un ritratto molto intenso: Me la miravo accanto / esile sì, ma bella / pallida sì, ma tanto / giovane! Una sorella! / bionda così com’ era / quando da noi partì (La madre), immagine che si lega a  ”La Madre”  di S. Lega. Il ricordo dei suoi baci e del vezzeggiativo con cui lo chiamava -Zvanì-  basta a definire beati anche se fugaci quei giorni (Una voce). La figura materna diventa, quindi, nell’ immaginario poetico di Pascoli, sinonimo di sicurezza e protezione dalle minacce del reale. Tenerissima l’espressione:…Soave allora un canto / s’ udì di madre, e il moto di una culla   (Il tuono). Altrettanto importante è il suo paese natale, che egli ricorda con nostalgia: Sempre un villaggio, sempre una campagna/ mi ride al cuore (o piange), Severino:/il paese ove, andando, ci accompagna/ l’azzurra visïon di San Marino:…oh! fossi io teco; e perderci nel verde,/e di tra gli olmi, nido alle ghiandaie,/ gettarci l’urlo che lungi si perde/ dentro il meridïano ozio dell’aie; / …Era il mio nido: dove, immobilmente,/ io galoppava con Guidon Selvaggio/ e con Astolfo; o mi vedea presente/ l’imperatore nell’eremitaggio./…Ma da quel nido, rondini tardive,/tutti tutti migrammo un giorno nero:/io, la mia patria or è dove si vive:/ gli altri son poco lungi; in cimitero./ …Romagna solatìa, dolce paese,/ cui regnarono Guidi e Malatesta;/ cui tenne pure il Passator cortese,/ re della strada, re della foresta. Bellissimo ai nostri occhi il paesaggio assolato e denso di vita che rievoca Vecchia città II di V. Kandisky. Il calore dell’abbraccio dell’ambiente familiare supera ogni altra esperienza: Già m’accoglieva in quelle ore bruciate / sotto ombrello di trine una mimosa, / che fioria la mia casa ai dì d’estate / co’ suoi pennacchi di color di rosa./…Era il mio nido… (Romagna), e l’arte di  C. Pissarro materializza la natura in Raccolto generoso e in Falciatura ad Eragny: Lungo la strada vedi su la siepe / ridere a mazzi le vermiglie bacche: / nei campi arati tornano al presepe / tarde le vacche. (Sera d’ ottobre.)

 

 A sette anni Pascoli entra in collegio insieme al fratello Giacomo e alla sorella Margherita. Sono gli anni più spensierati della sua vita, di cui sentiamo l’eco in alcuni versi: È questa una mattina  / che non c’ è scuola. Siamo usciti a schiera / tra le siepi di rovo e d’ albaspina,… Sono le voci della camerata / mia: le conosco tutte all’ improvviso, / una dolce,una acuta, una velata…(L’aquilone), versi che riflettono la freschezza dell’adolescenza in convergenza con il tripudio di colori di  Frutteto in primavera di A. Sisley. Fondamentale per il poeta è la figura del padre con le sue attenzioni, il suo sorriso, la sua tenerezza e il senso di sicurezza che infonde alla famiglia: E Margherita, la sorella grande,/ di sedici anni, disse adagio: “Babbo...„/“Che hai?„ “Ho, che leggemmo nel giornale/ che c’è gente che uccide per le strade...,/ Chinò mio padre tentennando il capo/ con un sorriso verso lei. Mia madre/ la guardò coi suoi cari occhi di mamma, come dicendo: A cosa puoi pensare!/ E le rondini andavano e tornavano, /ai nidi, piene di felicità…Mio padre prese la sua bimba in collo,/col suo gran pianto ch’era di già roco;…e la baciò, la ribaciò negli occhi… zuppi di già per non so che martoro. /“Non vuoi che vada?„ “No!„ “Perchè non vuoi?„/ “No! no!„ “Ti porto tante belle cose!„/ “No! no!„ La pose in terra: essa di nuovo / stese alla canna le sue dita rosa, / gli mise l’altro braccio ad un ginocchio:/ No! no! papà! no! no! papà! no! no! (Un ricordo). Ed aspettò. Aspetta ancora. Il babbo/ non tornò più. Non si rivide a casa.Ritornava una rondine al tetto: / l’uccisero: cadde tra spini: / ella aveva nel becco un insetto: / la cena dei suoi rondinini. Anche un uomo tornava al suo nido: / l’uccisero: disse: Perdono; /e restò negli aperti occhi un grido / portava due bambole in dono…(X  Agosto). Il quadro di  E. Munch “Al capezzale di un defunto”esemplifica  l’atmosfera di dolore. Il nido è stato violato e il richiamo a L’urlo di E. Munch,  è inevitabile. L’analogia suono-colore struttura la composizione: violente strisce ondulate, rosse, blu e gialle, generano il cielo e il mare. La figura umana è un’apparizione spettrale, delirante, dagli occhi vuoti. Ma da quel nido, rondini tardive, / tutti tutti migrammo un giorno nero; / io, la mia patria or è dove si vive: / gli altri son poco lungi; in cimitero. (Romagna). L’assassinio del padre, la morte della madre e dei fratelli, la dispersione della famiglia, la povertà, la necessità di lottare per vivere costituiscono una frattura rispetto al tempo felice dell’adolescenza e segnano la fine delle illusioni, come ci viene suggerito dalla poesia: “Novembre”: Gemmea l’aria, il sole così chiaro, / che tu ricerchi gli albicocchi in fiore,/e del prunalbo l’ odorino/ amaro senti nel cuore… La prima strofa della poesia, creata sul piano delle sensazioni e delle emozioni produce una forte impressione che fa sembrare reale ciò che non è ed è semplice il richiamo a  Primavera di  C. Monet. Ma secco è il pruno, e le stecchite piante / di nere trame segnano il sereno, / e vuoto il cielo, e cavo al piè sonante / sembra il terreno. Non ci sono più illusioni, le trame degli alberi secchi indicano la perdita dei sogni: Silenzio intorno: solo, alle ventate, / odi lontano, da giardini ed orti / di foglie un cader fragile. È l’estate, / fredda, dei morti, immagine che si configura  per noi in Novembre  di T. Signorini. La poesia  è innervata dalle figure dell’opposizione: suoni dolci verso suoni duri, uso dell’avversativa, ossimoro finale, quasi a voler tendere il linguaggio al massimo dell’espressività. Il nido è stato distrutto materialmente, ma resta aggrappato al cuore del poeta che, infatti, cercherà di ricostruirlo, seppur diverso: Dal selvaggio rosaio scheletrito / penzola un nido. Come, a primavera, / ne prorompeva empiendo la riviera / il cinguettìo del garrulo convito! / Or v’è sola una piuma, che all’invito / del vento esita, palpita leggiera; / qual sogno antico in anima severa ,/ fuggente sempre e non ancor fuggito:…(Il nido). L’assonanza tra scheletrito e nido proietta sul simbolo della famiglia la materialità della morte, ma la piuma che palpita leggera al soffio del vento indica la volontà di resistere, di sopravvivere. Il silenzio predomina e indica la solitudine, l’ abbandono, la morte, che pone fine al dolore e alle illusioni, che cadono falciate come in Campo di grano con falciatore di V. Van Gogh.

 


 

L’ossessione della morte e le figure del padre e della madre  popolano l’immaginario poetico di Pascoli. Alla rievocazione della morte del padre si associano immagini che sottolineano il tema della violenza: Ma uno squarcio aveva egli nel capo,/ ma piena del suo sangue era una mano (Un ricordo) Tu l’hai veduto l’uomo che l’uccise” (La cavallina storna) Ora è là, come in croce, che tende/ quel verme a quel cielo lontano (X agosto). Sofferenza e dolcezza connotano, invece, la rievocazione della figura della madre e della sua scomparsa. Le parole che le dedica nei Canti di Castelvecchio sottolineano la particolare densità affettiva di quel rapporto: «Io sento che a lei debbo la mia attitudine poetica. Non posso dimenticare certe sue silenziose meditazioni in qualche serata…,avanti i prati della torre. Ella stava seduta sul greppo: io appoggiavo la testa alle sue ginocchia. E così stavamo a sentir cantare i grilli e a veder scoppiare i lampi di caldo all’orizzonte…». Gioia e dolore, dolcezza e angoscia si accompagnano al tema della presenza-assenza: Sentivo una gran gioia, una gran pena, / una dolcezza ed un’angoscia muta. / - Mamma?- È là che ti scalda un po’ di cena.-  / Povera mamma! E lei, non l’ho veduta” (Sogno). Ancora, il tema di una comunicazione mai interrotta: O madre seppellita, / che gli altri lasci, oggi, per me; parliamo (Colloquio), ma di tante tante parole / non sento che un soffio…Zuanì… (La voce). Il nido rimasto vuoto indica prospetticamente la casa dei morti: il cimitero. Inquietudine e disagio segnano ormai l’esistenza del poeta che nei suoi versi esprime lo sconvolgimento del suo essere come  Mare in tempesta di G. Courbet.  

 continua

sabato 5 settembre 2020

La dipartita di Philippe Daverio, critico d’arte. Un ricordo.


 

Se ne è andato di soppiatto, senza far rumore,  quasi a voler continuare a colloquiare con arguzia e intelligenza di arte, mettendo in gioco la sua cultura,  che a iosa spandeva senza risparmiarsi, quasi a voler penetrare nell’intimo di ognuno e scuoterne interesse e curiosità, in un momento in cui tutti abbiamo bisogno di nutrirci di un sapere consapevole, non banale, scelto ed espresso con competenza.

Philippe Daverio se ne è andato il 2 settembre 2020 a Milano, spento da un male inesorabile, che lo ha reso vulnerabile e ha fermato la sua forza di  comunicatore misurato, di critico d’arte eccezionale, di divulgatore dalla battuta arguta, attenta e intelligente.    

La sua parola dava corpo ad ogni opera d’arte fino a renderla tangibile,  si insinuava nel pensiero di chi ascoltava e dava vita alla storia di personaggi e di situazioni in un racconto in cui ogni disciplina trovava il suo punto di convergenza. Imperdibili i suoi appuntamenti serali che si sperava non finissero mai, perché capaci di aprire ogni porta del sapere, facendo dell’arte un’amica indissolubile che si mutava in nutrimento ad ogni età.

Dotato di una cultura poliedrica e di onestà intellettuale, geniale nelle scelte, garbato nel racconto, elegante ed ironico, di grande competenza e professionalità,  con  un linguaggio semplice e fortemente comunicativo, ha saputo raccontare l’Italia e l’arte in genere con un amore e una passione che nessun tempo potrà mai cancellare.

giovedì 9 luglio 2020

Nascita del progetto didattico “Interazioni”

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Quando seduti dietro ad una cattedra, vediamo i volti stanchi e annoiati dei nostri ragazzi, sentiamo impellente il bisogno di cambiare  didattica e metodologia, e di allargare il panorama di conoscenze oltre le materie curriculari. Fu così che dal bisogno di cambiamento, nacque il progetto “Interazioni”. Era necessario far interagire le materie curriculari con le arti  che gli studenti degli istituti tecnici possono conoscere solo occasionalmente. Perché non fargli provare la forte emozione che si può vivere guardando un quadro o ascoltando una musica? Perché non aprirli al mondo delle arti che tanto possono donare in bellezza ed emozioni? Un’impresa non semplice con classi del biennio ma età fertile per curiosità e conoscenze. Se acoltare conferenze di arte riempie l’animo di gioia e lo sollecita a conoscere sempre di più, perché non farne dono ai ragazzi? Fu questa la spinta che mi convinse a cambiare radicalmente metodologia. Considerato che negli istituti tecnici non si studia né l’arte né la musica, nel 2000, insieme con i miei studenti del biennio dell’ITIS “A. Meucci”, realizzammo  il progetto “Interazioni” per sperimentare una didattica basata su linguaggi espressivi diversi per generi e forme da quelli curriculari, associando al linguaggio storico-letterario quello artistico-musicale attraverso l’analisi dei contenuti prescelti. Dato che punto di riferimento era il romanzo “I Promessi Sposi”, pensammo di analizzare il periodo compreso tra il secondo Settecento e il primo Ottocento, selezionandone  correnti, movimenti e protagonisti attraverso brani letterari, episodi del mito e dell’Epica classica, momenti di storia antica e medievale correlati all’Ottocento. Le indicazioni relative al linguaggio artistico ci furono fornite, durante le conferenze tenute a scuola, e in particolare con il tema “Romanzi e pittura di storia”, dal Prof. Carlo Sisi, già Direttore della Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti, che ci spiegò come un fatto storico può essere rappresentato con l’interazione tra il testo e la pittura e risultare in entrambi i linguaggi egualmente efficace per la comprensione del messaggio. Con l’uso di diapositive, avviò i ragazzi  alla conoscenza del  Neoclassicismo, del  bello ideale e del Romanticismo e  fornì vari input di riflessione ma il tema che colpì di più la fantasia e l’immaginazione nonché l’emotività fu il Gotico di Füssli e Blake e il Sublime di Turner e Friedrich. Il progetto si rivelò pertanto un valido strumento di collegamento tra la Scuola Media, poiché furono utilizzate le preconoscenze in essa acquisite, e il Triennio poiché si ponevano le premesse (per contenuti e metodo) al programma. Si usciva così dagli schemi consuetudinari, restava la “lettura” il tema conduttore ma si utilizzava un materiale ampio e diversificato: libri, registrazioni in video e audio, computer, materiale prelevato da internet e da enciclopedie multimediali, pubblicazioni, schede di lavoro con materiale relativo al linguaggio artistico-musicale e visita alla Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti.
Nel progetto integrale presente in “Interazioni” www.annalanzetta.blogspot.com sono indicati nella “Struttura”: gli obiettivi, le finalità, i temi e i tempi di svolgimento (che per spazio disponibile, abbiamo presentato, tra queste pagine, rivisitati), le preconoscenze, i contenuti e le unità modulari. Gli studenti  spiegano perché e come è nato questo lavoro, esprimono  sulla base delle preconoscenze il concetto di Storia, Letteratura, Arte e Musica e analizzano temi a carattere mitologico, storico, di cronaca, d’introspezione e di creatività. Uno degli aspetti più importanti di questo lavoro è stato il coinvolgimento di studenti di più classi, impegnati nella ricerca del materiale cartaceo e multimediale, inseriti in gruppi di studio, formati dagli stessi ragazzi in relazione ai propri interessi, operando sia a livello teorico che pratico, associando lo studio dei testi all’immagine, visitando la Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti, guidati dal Prof. Carlo Sisi  per la pittura di storia, e  ascoltando le musiche relative ai temi prescelti guidati da un esperto. Gli elementi acquisiti con i diversi linguaggi e i vari interventi, sollecitarono la loro creatività e immaginazione fino a cimentarsi nella produzione di  racconti di vario genere, racchiusi poi nel libro “Sapere per creare”. Questo è stato l’impegno più qualificante, considerato che l’esperienza è stata realizzata in un Istituto Tecnico, dove il linguaggio artistico-musicale ha affiancato quello storico-letterario. Nelle varie fasi del lavoro: ricerca, selezione e produzione, ogni studente ha vagliato le proprie capacità e conoscenze ed ha verificato operativamente il proprio metodo di studio.


Il progetto ha entusiasmato i ragazzi, che così si sono espressi: in questo lavoro abbiamo accomunato la letteratura, la pittura e la musica in precisi contesti storici. L’elaborazione dei vari moduli ci ha aiutato a comprendere il nostro passato attraverso l’analisi delle opere dei più importanti artisti, che hanno rappresentato momenti fondamentali della nostra storia. Dall’analisi di queste opere abbiamo capito che esiste una interrelazione tra letteratura, musica e pittura nel modo di concepire la realtà e di rappresentarla e che ogni artista rappresenta la realtà secondo il proprio campo espressivo e il proprio modo di pensare. Queste opere, che sono fonti o documenti, fungono da elementi di correlazione tra il nostro passato e il nostro presente. Gli artisti  diventano anche cronisti come per Géricault  con La zattera della Medusa o per Goya con Le fucilazioni 3 maggio 1808 e, grazie alle loro opere, possiamo conoscere le più importanti vicende storiche. Essi, anche se scelgono di rappresentare la realtà secondo il proprio linguaggio espressivo, spesso sono uniti dall’obiettivo comune  dell’utilità, intesa come fattore didattico-educativo. Per conoscere un fatto storico nella sua completezza lo abbiamo analizzato in tutti e tre i principali campi espressivi poiché:-la Letteratura ci racconta i fatti;-la Pittura ci mostra i fatti;-la Musica ci narra i fatti, facendoci percepire i sentimenti dell’artista mediante i suoni espressi. Abbiamo così capito che tra arte, storia, musica e letteratura esiste un legame stretto, infatti questi linguaggi sono profondamente diversi ma crescono l’uno in rapporto all’altro e si arricchiscono fra loro: si può suonare un quadro, si può dipingere una sinfonia, un quadro può ispirare una poesia e leggendo una poesia, un pittore può provare ad immaginare la scena descritta dal poeta e raffigurarla in un quadro. Da queste interrelazioni che intercorrono tra storia, arte, musica e letteratura,  abbiamo compreso che dobbiamo analizzare il nostro passato a 360°, usufruendo di tutte le fonti disponibili, forniteci soprattutto dagli artisti-cronisti e di tutti i linguaggi espressivi posti in sinergia. Uno degli scopi di questo lavoro è stato infatti quello di imparare a leggere un’opera d’arte o un’opera musicale come un testo letterario: riuscire, vedendo un quadro, una scultura o ascoltando una melodia a riconoscere i costumi, gli usi, la situazione sociale di un’epoca e la corrente di appartenenza dell’artista, a comprendere il messaggio  dell’artista, a percepirne sentimenti, emozioni e stati d’animo.Questo lavoro è stato una novità sia per noi che per la nostra scuola, poiché in un Istituto Tecnico non si studiano linguaggi come la Musica e la Storia dell’Arte.Questa esperienza è stata senz’altro utile ed istruttiva, perché ci ha consentito di ampliare le nostre conoscenze e di acquisire  una metodologia di studio efficace, che ci ha coinvolto sia a livello individuale che di gruppo in un lavoro articolato ed importante per noi. Sentiamo sempre più spesso ripetere che la nostra è una società che si basa sull’immagine e sull’apparenza, che ha perso le radici profonde dei valori e delle ideologie, che nell’attuale panorama storico, preannuncia un futuro privo di valori morali. Noi crediamo nel valore della cultura e vogliamo che in questa società, che ha saputo negli anni progredire tecnologicamente e innovativamente, si consolidi sempre più il valore educativo e formativo.

giovedì 4 giugno 2020

Il magico fantastico. Fiaba e Favola




Il testo sottostante è frutto del lavoro dei ragazzi del biennio ITIS Meucci, anno 2000 all’interno del progetto “Interazioni”
La fiaba ha origine popolare ed è nata come racconto orale. L’elemento in essa predominante è il magico-fantastico. I protagonisti sono esseri umani affiancati da elementi magici: fate, orchi, streghe, maghi e folletti. La fiaba ha una struttura complessa che può variare a seconda del soggetto, degli avvenimenti e dell’ambiente rappresentati. C’era una volta…Nel libro “Le Mille e una Notte”, la bella e buona Shéhérazade racconta al re, infelice e crudele, una storia ogni notte, per salvare la vita a se stessa e alle altre fanciulle del regno, destinate a morire dopo aver trascorso una notte con lui, per soddisfare la sua vendetta contro le donne, da quando aveva scoperto il tradimento della moglie. Il re Shahriyàr, ascoltando i suoi racconti, se ne innamora e la sposa. Ispirato da questo racconto, Rimskij-Korsakov scrisse una bellissima composizione, una vera musica a programma, basata su quattro movimenti, in cui si individua la voce del terribile Sultano Shahriyàr e quella seducente di Shérérazade. “Aladdin”, ladruncolo sin da piccolo, si innamora della figlia del Sultano, e per conquistarla chiede aiuto al Genio della Lampada. I suoi piani vengono però ostacolati dal consigliere di corte, un mago cattivo di nome Jafar, che per prendersi il trono cerca di sposare la ragazza: Subito la terra tremò e la duna si trasformò nella maestosa testa della Dea Tigre dagli occhi fiammeggiantidi lì a poco si accorse di un qualcosa che la seguiva facendole ogni tanto qualche dispettuccio. Si guardò attorno un tantino spaventata e con la coda dell’occhio scorse un tappeto che si muoveva come un essere animato. Lo strano essere agitava le quattro toppe poste ai suoi angoli come fossero mani e piedi;e si arrotolava, si srotolava, strisciava, svolazzava, correva a nascondersi intimorita…adesso sei tu il mio padrone disse infine ad Aladino, esprimi tre desideri e io li esaudirò purché non si tratti di uccidere, né di resuscitare, né di far innamorare qualcuno. Due bambini di nome “Hansel e Gretel” vivevano con il padre e la matrigna in una misera casa. La matrigna, dato che erano poveri, convinse il marito ad abbandonare i piccoli nel bosco. La prima volta i bambini riuscirono a ritornare a casa, ma la seconda volta si persero e camminando, arrivarono a una casa di marzapane: Il tetto di pasta frolla, la porta di cioccolata e le finestre di zucchero filato, abitata da una vecchina con un bastone e con uno scialle che sembrava una buona persona ma che poi non si rivelò tale. La vecchia che era una strega  li catturò e li mise ad ingrassare, per mangiarseli ben paffuti. I bambini però riuscirono a scappare con un fortino pieno di soldi e attraversando un laghetto a dorso di due cigni, riuscirono a tornare a casa.



“Biancaneve” era una ragazza molto bella. Un giorno venne allontanata dal castello in cui viveva, perché la matrigna era gelosa della sua bellezza. Vagò per molto tempo e arrivò alla casa dei sette nani che l’accolsero come una regina. La matrigna, credendola morta, interpellò  il suo specchio: Specchio specchio chi è più bella di me? Oh mia regina, Biancaneve è più bella di te! La regina, infuriata, mandò una strega a consegnarle una mela. Biancaneve prese la mela ma essendo avvelenata,  morì. I sette nani la misero in una bara di cristallo e la vegliarono giorno e notte. Un giorno passò di lì un principe che con un bacio la risvegliò. “Lo Specchio Magico” narra la storia di una ragazza costretta a scappare da casa per colpa dello zio, che la importunava. Camminando, camminando, si ritrovò in un bosco dove scoprì un castello. Nel castello abitavano due cavalieri. La ragazza rimase a vivere con loro ma un giorno la matrigna, gelosa della sua bellezza, le mandò uno strega che con un capello stregato la fece cadere in un sonno profondo. I due cavalieri, credendola morta, si uccisero. Solo grazie a un bacio del figlio dello zar, la ragazza si risvegliò dal profondo sonno e si sposarono. Ma lei voleva ritornare a casa per rivedere il padre e vendicarsi dello zio, così si imbarcò, ma dato che il capitano la importunava, fu costretta a nascondersi per tornare sana e salva dal padre; una volta scesa dalla nave, raccontò tutta la sua storia a suo padre e fu fatta vendetta.


 La parola favola, deriva dal latino fabula e significa racconto parlato. Ha origini molto antiche, risalenti probabilmente alle antiche culture orientali e occidentali. A quei tempi le favole venivano tramandate oralmente di generazione in generazione e servivano da insegnamento morale. La favola rappresenta i vizi e le virtù umane attraverso il comportamento degli animali. “Il gatto con gli stivali”: Un vecchio contadino morendo lasciò la sua eredità ai suoi tre figli. Al più piccolo lasciò un gatto. Il ragazzo era disperato perché pensava che non gli sarebbe servito a molto. Il gatto sentendo quelle parole si impaurì e disse al ragazzo di procurargli un paio di stivali e un sacco.  Una volta avuti gli stivali magici e il sacco, andò in un allevamento di conigli, ne prese uno e lo donò al re. L’indomani fece la stessa cosa con delle pernici, dicendo al re che gliele mandava il conte di Carabas. Il re gli disse che voleva conoscere il conte per ringraziarlo e il gatto lo condusse dal giovane. La principessa, figlia del re, si innamorò di lui e si sposarono. Una ragazza di nome “Cenerentola” viveva poveramente con la sua matrigna e le sue sorellastre che la trattavano come una serva. Un giorno il principe organizzò un ballo per trovare moglie. Cenerentola voleva partecipare, ma la matrigna e le sorellastre gelose non glielo concessero, così, solo grazie all’aiuto della fatina “Favilla” riuscì a partecipare al ballo e dopo a sposare il principe: La bacchetta magica  trasforma la zucca in un cocchio, i “Topi” in cavalli bianchi e il “cane” in un lacchè. La “fata” che è la madrina di Cenerentola, grazie alla bacchetta riesce ad aiutarla: La fata toccò con la bacchetta la zucca che si trasformò in un cocchio dorato. Prese sette topi bianchi e li trasformò in dei bellissimi cavalli. Trasformò gli stracci in uno stupendo vestito ricamato d’oro e d’argento, e gli zoccoli in scarpette di cristallo…Correndo perse una scarpetta, tutte le ragazze del reame la provarono ma solo a Cenerentola stette”. Una bambina di nome “Cappuccetto rosso” andò dalla nonna malata a portarle un fagotto con delle cose da mangiare. Durante il cammino incontrò il lupo cattivo che le disse che sarebbe arrivato prima di lei a casa della nonna. Cappuccetto ingenua prese la strada più lunga e il lupo furbo prese la scorciatoia e così arrivò per primo. Entrò, si mangiò la nonna e travestitosi da nonna si mangiò anche Cappuccetto Rosso. Arrivò il cacciatore, uccise il lupo e fece uscire dalla sua pancia la nonna e Cappuccetto.Pollicina”: Una donna non aveva figli e voleva avere una bambina, così andò da un fata che le diede un seme. La donna lo piantò e ne nacque una bambina. La bimba però fu rapita da un rospo ma i pesci riuscirono a farla scappare e così si ritrovò davanti alla tana di un topo che la voleva  far sposare con un suo amico talpone.  La bambina riuscì a scappare sopra una rondine parlante e andò nei paesi caldi dove trovò un fiore nel quale vi era il re dei fiori, alto un pollice. I due s’innamorarono e si sposarono: Una donna si recò nel palazzo di una vecchia fata…che le diede un granellino d’orzo…la donna lo piantò. Passarono alcuni giorni e il granellino germogliò e spuntò un fiore…la donna lo baciò e i petali si schiusero…e apparve una bambina piccina. Per culla ebbe un guscio di noce, per materasso polline di fiore e per lenzuola petali di rosa. “La notte dei desideri”: Ma lospirito ogni anno doveva compiere 100 azioni cattive contro la natura. Gli animali essendosi accorti di ciò che faceva, gli inviarono per sorvegliarlo, il gatto parlante Maurice. Malospirito era indietro con le azioni cattive così sua zia Tirannia, anche lei indietro con le azioni cattive, gli propose di fare il Satanarchibugiardinfernalcolico grog di magog, che permette di esaudire un desiderio. Ma i due non riusciranno a fabbricarlo in tempo: Del malvagio è l’ora ottava. La ragione è sempre schiava:vero o falso non ha senso, crepi il senno ed il buonsenso! Sii menzogna; la sua musa! Quando nel crogiolo è fusa, ogni verità è fasulla, la realtà non è più nulla. Non c’è ordine che vale, sia morale o naturale: nell’arbitrio solamente la libertà è evidente. Non avere una coscienza, garantisce l’onnipotenza: giacchè tutto far possiamo, tutto è logico facciamo. Dunque spazzeremo via ogni cosa abbia senso: c’inchiniamo alla follia, al nonsenso e al controsenso. Incantesimo malvagio, intruglia a tuo bell’agio.




Durante l’anno scolastico, abbiamo studiato e analizzato testi di vario genere che ci hanno dato la possibilità di accrescere il nostro bagaglio culturale, di approfondire le nostre conoscere e di accrescere le nostre potenzialità.  Noi crediamo nel valore della cultura e vogliamo che in questa società, che ha saputo negli anni progredire tecnologicamente e innovativamente, si consolidi sempre più il valore educativo e formativo: Ai giorni nostri, quando la lette-ratura è prossima a smarrire il proprio indirizzo e il raccontare le novelle sta diventando un’arte dimenticata, i ragazzi sono i lettori ideali (Isaac Bashevis Singer)