domenica 23 ottobre 2011

Viaggiando con artisti e letterati 3, La Locride VI


Viaggiando sulle montagne della Locride, è come entrare in un tempo lontano.

Ogni angolo ha una storia antichissima.
Incisiva è stata la presenza dei monaci basiliani e dei profughi che si insediarono nel territorio per sfuggire alle incursioni turche e che diedero vita ad alcuni centri come Ciminà (dal greco Kyminà, luogo del cumino selvatico), fondata da Greci e Albanesi di religione cristiana, scacciati da Costantinopoli dai Turchi. Così Mammola (il cui nome deriverebbe da “Mamoula” dal centro greco nell’isola di Eubea), costruita da profughi che si rifugiarono nel monastero basiliano dove dimorò San Nicodemo (Cirò ?, X secolo-Mammola, 990):



Gross St Martin Grablegungs gruppe


Nikodemus (membro del Sinedrio), unbekannte Person, Maria Magdalena, Maria, Mutter Jesu, Apostel Johannes, Josef von Arimathäa raccolsero il corpo di Gesù sotto la croce, lo avvolsero nella Sindone e lo deposero nel sepolcro.

La Locride è un incrocio e un sovrapporsi di culture, di epoche, di stili, di materiali e di dominazioni con ricche e varie testimonianze come la struttura medievale a Bivongi e a Ciminà con viuzze strette e intricate, reperti archeologici risalenti al neolitico, resti di un castello normanno a Gioiosa Jonica, di un teatro romano a Marina di Gioiosa Jonica, di un tempio Dorico a Monasterace, ruderi del castello di Roccella Jonica (costruito dagli Angioini su di una rupe abitata fin dall'epoca protostorica, come dimostra, in epoca recente, il ritrovamento di una necropoli del X-VIII sec. a. C), l’utilizzo della pietra tufacea dai riflessi violacei di Ciminà e gli stupendi panorami come quello di Canolo posto tra cave di pietra rossastra.

Nel 1962, quando oramai il castello era diventato uno sfasciume, scrive Leonida Rapaci, scrittore e pittore (Palmi,1898-Marina di Pietrasanta,1985): Roccella .. col suo castello alto sulla rupe, prossimo a disintegrarsi, a polverizzarsi sotto la stretta del sole, il morso del vento, il lupus del salino, la marea degli uragani .. Questo castello, che mostra nella sua struttura di fortezza e di sede principesca i segni dell'antica nobiltà, resistette ai pirati di Dragut ma nulla potè, e può, contro le ore che scorrono nel quadrante del tempo.

Ora il palazzo dei Carafa è un cadavere calcinato dagli elementi, qualche cosa che, a ogni minuto, crepa si apre, sta a crollare. Diventato stazzo di pecore i pastori vi portan le greggi che, salendo l'erta, cercano qualche filo d'erba tra i sassi, e non trovano che la pietra nuda, liscia, consumata come un'antica medaglia. (da La piana di Locri: il silenzio della storia)



Vivant Denon in un autoritratto del 1823

Così scrive Dominique-Vivant Denon, scrittore, incisore, storico dell’arte, egittologo (Givry,1747-Parigi,1825), durante il suo viaggio in Calabria del 1778: "... Roccella, posta su una roccia arida che da lontano assume un effetto imponente, ma che da vicino è una rovina orribile, senza una casa abitabile.
Si dice che fu forte ed opulenta ma di tutto il suo splendore passato non resta che un cannone di bronzo, dimenticato dal re cattolico. L'esplosione d'un solo colpo, se lo facessero sparare, farebbe crollare tutte le costruzioni che restano nella città.

Gli abitanti si stabiliscono adesso fuori dalle mura col rischio d'essere attaccati dai Turchi che non hanno ancora cessato di fare scorrerie da queste parti e che, qualche giorno fa, s'erano impadroniti dei battelli davanti agli stessi abitanti e nonostante la torre di guardia in cui tengono per guarnigione il reliquario d'un cappuccino e un vecchio eremita.(da Calabria felix)
E tra gli speroni rocciosi dei monti “Stella” e “Consolino” è incastonato Pazzano, con case accatastate, stretti vicoli detti magnani e ripide scale esterne.
« ...Qui e la spunta la roccia, nuda, nera, ciclopica. Non è dunque questo Ferdinandea? No, questo è Pazzano: paese di pietra e paese di ferro. Sta nell'aria e si respira il ferro: sgorga e si rovescia dalla bocca delle miniere, rossastro, sottilissimo, dilagante in flutti di polvere. » (Matilde Serao, agosto 1883)
Matilde Serao, scrittrice e giornalista, (Patrasso,1856– Napoli,1927), sul Corriere di Roma del 19 settembre 1886, scriveva: Fresca profonda verde foresta. La luce vi è mite, delicatissima, il cielo pare infinitamente lontano; è deliziosa la freschezza dell'aria; in fondo al burrone canta il torrente; sotto le felci canta il ruscello ... Si ascende sempre, fra il silenzio, fra la boscaglia fitta, per un'ampia via ... Tacciono le voci umane ... Non v'è che questa foresta, immensa, sconfinata: solo quest'alta vegetazione esiste. Siamo lontani per centinaia di miglia dall'abitato: forse il mondo è morto dietro di noi. Ma ad un tratto, tra la taciturnà serena di questa boscaglia, un che di bianco traspare tra le altezze dei faggi. Questa è Ferdinandea. Un territorio di 3600 ettari delle Serre calabresi, ricoperto quasi interamente da boschi di faggio e abete.

I poeti di Pazzano:

Ada Saffo Sapere nacque a Catanzaro il 17-03-1893
I nomi di Ada e di Saffo, le furono dati dal padre in onore alle poetesse Ada Negri e Saffo, poetessa Greca dell’isola di Lesbo.
Così scriveva quando era a San Paolo….“Non ci fu giorno della mia vita, nel mio peregrinare per il mondo in cui non ho rivolto il mio pensiero a questa Chiesa, a Pazzano, a questi luoghi, a questa buona gente. Da questa struggente malinconia, nel forzato esilio, scaturì come limpido ruscello di montagna, la mia poesia Calabria”.
“Calabria” fu pubblicata per la prima volta sul bollettino mensile “La stella sulla vetta”, fondato e diretto da Don Mario Squillace.
« Ada Saffo Sapere, colei che più si avvicina alla fatica del mio spirito. », così si esprimeva in “Acque e terre”, Salvatore Quasimodo, legato alla poetessa da profonda amicizia e stima.

Giuseppe Coniglio, U poeta, ( Pazzano,1922- Catanzaro, 2006), autore di diverse opere in dialetto pazzanito.
« Giuseppe Coniglio rientra senza dubbio nel novero dei poeti calabresi più importanti dell'ultimo ventennio. Personaggio autentico, semplice e spontaneo, ha un comportamento originale e fantastico », così scrive di lui, Claudio Stillitano in "Calabria Letteraria".
Coniglio ha pubblicato nel 1973 la sua prima raccolta di poesie “Calabria contadina”, nel 1984 la seconda “Quattru chjacchjari e dui arrisi”, e l’ultima nel 1996 “A terra mia”.

« Pazzanu è ncassaratu nta ddu timpi
a menza costa tra a muntagna e u mari
duva na vota nc'eranu i minieri i carcaruoti e l'armacatari...

Poesia: Pazzanu, Giuseppe Coniglio »




L’attrazione maggiore di Pazzano è il Santuario di S. Maria della Stella, posto a 650 m di altezza sul monte Stella, le cui rocce sono costituite da calcari del Giurassico.


« Saldo t'innanzi e come sempre care
mi sono le tue falde e le tue cime
non ti posso mirare senza sognare
non ti posso mirar senza far rime. »

(poeta dell'ottocento; citato in Mario Squillace,
L'Eremo di S. Maria della Stella, edizione Grottaferrata, 1965)

È un eremo bizantino posto in una grotta a cui si accede da una strada che s’inerpica in un territorio molto impervio e che custodisce la statua della Vergine.

-Si racconta che la statua, trasportata su una barca presso punta Stilo, abbia fatto intuire ai marinai, tramite una grande luce che splendeva sul monte Stella, la volontà di voler prendere dimora in quel luogo e che, trasportata su da due buoi, attraverso la vallata, arrivata in grotta, abbia lottato contro satana prendendo possesso del luogo-.




La bianca statua marmorea, della bottega del Bonanno è del 1562 e fu posta sull’altare in sostituzione dell’icona della Madonna di culto ortodosso.

« Accui nci cerca grazzia nci nda duna
cu avi u cori offisu nci lu sana
E io, Madonna mia nda ciercu una
nchianati 'n paradisu st'arma sana>>

tratto da un canto popolare

All’eremo si accede scendendo una lunga scalinata di 62 scalini) scavata nella pietra.



 


Di particolare interesse all’interno della grotta è il frammento di un affresco di arte bizantina, raffigurante Santa Maria Egiziaca che riceve l'eucarestia dal monaco Zosimo. L'affresco che si ritiene sia del secolo XIV ca., è il più antico affresco bizantino dell’Italia meridionale. (da: Viaggio nella riviera dei gelsomini).

-Qui salirono or sono mille e trecento anni (sec. VIII) i primi monaci greci per vivere nelle grotte eremitiche la più macerante e severa ascesi anacoretica. Il pellegrino che sale all'Eremo di Montestella, percorrendo la strada da Pazzano o da Stilo, resta sensibilmente colpito dal luogo, un abisso nelle viscere della terra ove per due secoli circa gli Eremiti vissero in contemplazione, in preghiera, in mortificazione. La Grotta non è altro che una escavazione naturale nelle pendici della montagna, un rifugio per proteggersi dalle intemperie: in essa si trovava una cuccetta, uno stipetto al muro, dove si depositava il Salterio, qualche icona e qualche manoscritto biblico o di contenuto ascetico.

Il cibo era costituito da quello che le pendici del monte producevano, mentre le mortificazioni corporali erano addirittura inaudite. Le incursioni saracene costrinsero l'Egumeno dell'Eremo a fuggire salvando dei codici preziosi che i monaci avevano trascritto. Cessate le invasioni saracene il successore dell'Egumeno tornò riportando molti dei manoscritti che costituirono il primo fondo di biblioteca nel cenobio di Santa Maria. Da Eremo, di vita intensamente anacoretica e rigorosa, Santa Maria della Stella diviene Monastero (minore) coi Normanni…-




Uno dei luoghi della Locride di grande intensità spirituale è la Certosa di Serra San Bruno.



San Bruno, fondatore dei Certosini, nacque a Colonia, in Germania, nel 1030.


Dalla Francia dove aveva dimorato, scese in Calabria dove fondò la Certosa di Serra san Bruno e dove morì nel 1101.
Il Santo descrisse la natura del luogo ricevuto in dono in una lettera indirizzata a Rodolfo il Verde, uno dei due compagni che fecero insieme a lui, nel giardino di Adamo, il voto di consacrarsi alla vita monastica:

«In territorio di Calabria, con dei fratelli religiosi, alcuni dei quali molto colti, che, in una perseverante vigilanza divina attendono il ritorno del loro Signore per aprirgli subito appena bussa, io abito in un eremo abbastanza lontano, da tutti i lati, dalle abitazioni degli uomini. Della sua amenità, del suo clima mite e sano, della pianura vasta e piacevole che si estende per lungo tratto tra i monti, con le sue verdeggianti praterie e i suoi floridi pascoli, che cosa potrei dirti in maniera adeguata? Chi descriverà in modo consono l'aspetto delle colline che dolcemente si vanno innalzando da tutte le parti, il recesso delle ombrose valli, con la piacevole ricchezza di fiumi, di ruscelli e di sorgenti? Né mancano orti irrigati, né alberi da frutto svariati e fertili».(San Bruno, Lettera a Rodolfo il Verde, 1097)

Cari lettori, termina con Serra San Bruno il nostro viaggio nella Locride. Spero che le sue perle che vi ho descritto suscitino in voi e in ogni visitatore   l'amore e l'emozione che io ho sentito e che sento per questo territorio dopo d'averlo visitato.
Il mio è un invito a conoscere  La Locride per  poter apprezzare e amare questo territorio per ciò che possiede come eredità storica, per ciò che può mostrare, per tutto ciò  che sa donare con lo spirito dell'ospitalità.

Anna Lanzetta




 

mercoledì 19 ottobre 2011

Per Andrea Zanzotto



Andrea Zanzotto (Pieve di Soligo, 1921- Conegliano, 2011)

Non si può non aprire una pagina sulla poesia per ricordare un grande poeta della parola, del verso, del sentimento, dell’impegno a dire, a comunicare il pensiero e a intesserlo col nostro. 

Quando muore un poeta senti nel profondo che qualcosa muore dentro di te. Muore il dialogo con una voce che sentivi anche tua, perché la poesia ha la prerogativa di saper essere individuale e collettiva.

È morto un poeta, riflesso di un’Italia che muore nel disimpegno verso la cultura.

Non ho avuto modo di conoscere Zanzotto, ma alla notizia della sua morte ho avvertito un vuoto profondo e un silenzio incombente.

A Zanzotto, poeta, espressione di vita e di pensiero, regalo la mia emozione e  il ricordo della sua poesia:




         Prima persona

-Io- in tremiti continui, -io – disperso
e presente: mai giunge
l’ora tua,
mai suona il cielo del tuo vero nascere.
Ma tu scaturisci per lenti
boschi, per lucidi abissi,
per soli aperti come vive ventose,
tu sempre umiliato lambisci
indomito incrini
l’essere macilento
o erompente in ustioni.
Sul vetro
eternamente oscuro
sfugge pasqua dagli scossi capelli
primavera dimora e svanisce.
Tu ansito costretto e interrotto
ora, ora e sempre,
insaziabile e smorto raggiungermi.
Ora e sempre? Ma se da un bene
l’ombra, se di un’idea
solo mi tocchi, o vortice a cui corrono
i conati malcerti, il fioco
sospingermi del cuore. E là nel vetro
pasqua e maggio e il rissoso lume affondano
e l’infinito verde delle piogge.
Col motore sobbalza
la strada e il fango, cresce
l’orgasmo, io cresco io cado.
Di te vivrò fin che distratto ecceda
il tuo nume sul mio
già estinto significato,
fin che in altri terrori tu rigermini
in altre vanificazioni.

Andrea Zanzotto- Da Vocativo

L’io del poeta si interroga per tutto il testo, in un' indagine dialetticamente sospesa tra affanno, paura, sentimento di perdita  e spiragli di una possibile autoidentificazione.

Se fossi ancora in aula, oggi come una volta: “Silenzio”.

L’invito agli studenti sarebbe quello di meditare sui versi 12-15 e in particolare sull’ossimoro “ primavera dimora e svanisce”, indicativo ieri come oggi della precarietà e fuggevolezza di tempo e stagioni, all’interno di una generale e angosciosa instabilità di tutto ciò che ci circonda.



Anna Lanzetta




mercoledì 12 ottobre 2011

Viaggiando con artisti e letterati 3, La Locride V




Corrado Alvaro

(San Luca,1895- Roma,1956)

 La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile  (Corrado Alvaro)

Ogni luogo della Locride è richiamo a un passato non sepolto ma vivo e serpeggiante essenzialmente nella ritualità.
San Luca è un luogo che si ammanta di fascino e di mistero. Le sue origini risalgono a tempi lontani quando le avverse condizioni spinsero gli abitanti di Potamia a cercare una nuova terra. Erano pastori d’Aspromonte che dopo un lungo cammino  si fermarono in un luogo, dove i pastori portavano le greggi durante i rigidi inverni. Era il 18 ottobre 1592 e data la ricorrenza del santo, chiamarono il paese che costruirono San Luca e a Polsi di San Luca sorse uno dei monasteri diventato luogo "mariano" di forte  richiamo, essenzialmente per i calabresi e i siciliani. 



Il Santuario "Madonna della Montagna" a Polsi di San Luca



Il bel campanile in stile bizantino.


Il campanile col suo cappello a cono come se stesse a guardia di se stesso (Corrado Alvaro)

A 13 Km da San Luca, ai piedi di Montalto, la più alta cima dell’Aspromonte, sorge in una profonda vallata il Santuario dedicato alla “Madonna della Montagna di Polsi”. Fu un tempo romitorio dei monaci bizantini che vi si rifugiarono per sfuggire alle persecuzioni o di monaci fuggiti dalla Sicilia verso il IX secolo, a causa delle incursioni. Nel secolo XI il luogo, ormai abbandonato, si rivestì di leggenda. Si racconta che nel posto dove ora sorge la chiesa, sia stata rinvenuta da un pastore, una strana Croce di ferro, dissotterrata miracolosamente da un torello. La Croce è tutt’oggi conservata nel Santuario di “Santa Maria di Polsi”e a diffondere il culto della devozione alla Croce e alla Madonna furono i monaci basiliani, praticanti il rito greco.

Questo Santuario, ha scritto l'illustre latinista e poeta Francesco Sofìa Alessio (Radicena,1873-Reggio Calabria,1943) nella prefazione del suo poemetto Feriae montanae, fu fondato al tempo di Ruggiero il Normanno, dopo che un pastore vide un torello genuflesso dinanzi ad una Croce greca, che si conserva ancora, e dopo l'apparizione della Vergine, che volle un tempio nella Valle di Polsi per richiamare intorno a sé i fedeli di Calabria e di Sicilia. Innumerevoli sono i miracoli operati dalla Vergine della Montagna e le grazie concesse.
Nell'anno 1771, i Principi di Caraffa, ottenuta per intercessione di Maria prole maschile, si recarono al Santuario per ringraziare la Vergine, ma giunti presso Bovalino il bambino morì. I Principi, composto il corpicino in una bara, ripresero il viaggio con la ferma fede che la Madonna lo avrebbe restituito in vita. Entrati nel Santuario esposero sull'altare il cadaverino e cominciarono a recitare le litanie, e quando si venne all'invocazione Sancta Maria De Polsis il bambino aperse gli occhi e tornò in vita. La bara si conserva ancora nel Santuario.
L'episodio è riportato in un noto canto popolare pubblicato nel volume "Storia e Folklore Calabrese".




Nella chiesa di Polsi si venera un bellissimo simulacro della Madonna, in pietra tufacea, scolpito a tutto tondo da maestranze siciliane o napoletane. Nulla si sa dell’arrivo di questa statua nella valle, a parte le leggende. Alcuni autori, tra i quali Corrado Alvaro, ritengono che il trasferimento sia avvenuto verso la metà del secolo XVI.




Del secolo XVIII è, invece, la statua lignea della Madonna, donata da Fulcone Antonio Ruffo, principe di Scilla e portata a Polsi nel 1751.

Corrado Alvaro nella sua monografia “Calabria”, scrive: Dirò di una festa che è forse la più animata delle Calabrie. Le feste fanno conoscere la natura degli uomini. Nell’Aspromonte abbiamo un Santuario che si chiama di Polsi, ma comunemente della Madonna della Montagna. È un convento basiliano del millecento, uno dei pochi che rimangono in piedi nelle Calabrie. La Madonna è opera siciliana del secolo XVI, scolpita nel tufo e colorata, con due occhi bianchi e neri, fissi, che guardano da tutte le parti.
Ognuno fa quello che può per fare onore alla Regina della festa: la gente ricca può portare, essendo scampata da un male, un cero grande quanto la persona di chi ha avuto la grazia, o una coppia di buoi, o pecore, o un carico di formaggio, di vino, di olio, di grano; ci sono tanti modi per disobbligarsi con la Vergine delicata, come la chiamano le donne. Uno, denudato il petto e le gambe, si porta addosso una campana di spine che lo copre dalla testa ai piedi, spine lunghe e dure come crescono nel nostro spinoso paese, e che ad ogni passo pungono chi ci sta in mezzo. Una femminella fa un tratto di strada sulle ginocchia; e così le ragazze fanno la strada ballando, e balleranno giorno e notte per le ore che hanno fatto il voto, fino a che si ritrovano buttate in terra o appoggiate al muro, che muovono ancora i piedi. E i cacciatori, poi, che fanno voto di sparare alcuni chili di polvere; in quei giorni non si parla di porto d’armi, e i Carabinieri lo sanno. Gli armati si dispongono nei boschi intorno al Santuario e sparano notte e giorno […].


Si vedono le mille facce delle Calabrie. Le donne intorno dicono le parole più lusinghiere alla Madonna, perché si commuova. […] Sul banco coperto di un lino, le donne buttano gli orecchini e i braccialetti; gli uomini tornati da una fortunata migrazione le carte da cento e da più: è una montagna d’oro e di denaro che per la prima volta nessuno guarda con occhi cupidi.

La Vergine guarda sopra tutti, e i gioielli degli anni passati la coprono come un fulgido ricamo […].

Al terzo giorno di Settembre si fa la processione e si tira fuori il simulacro portatile […] tra lo sparo dei fucili che formano non si sa che silenzio fragoroso, non si sente altro che il battito di migliaia di pugni su migliaia di petti, un rombo di umanità viva tra cui l’uomo più sgannato trema come davanti a un’armonia più alta della mente umana. Le semplici donne che non si sanno spiegare nulla, si stracciano il viso e non riescono neppure a piangere […].





Stefano De Fiores nato a San Luca nel 1933, missionario monfortano, dice: Dinanzi a questa statua si sprigiona il canto o la preghiera spontanea dei fedeli: parlano a lei, o lasciano che un pianto dirotto ricordi gli avvenimenti drammatici della vita, o lavi con lacrime purificatrici i più tristi trascorsi. A Polsi si evidenziano le note della pietà mariana popolare: il senso di una presenza viva dotata di potenza e bontà, l'attrattiva della bellezza, l'esigenza di contatto immediato, il bisogno di far festa…. (Da: "Storia e folklore calabrese" dell'autore).


Il fedele che si reca per la prima volta a Polsi ci ritorna volentieri, come traspare dal canto di cammino:

Vergini bella, japrìtindi li porti,

ca stanno arrivando li devoti Vostri.

E nui venimu sonando e cantandu,
Maria di la Montagna cu’ Vui m’arriccumandu.

Vergini bella, dàtindi la manu,
ca simu forestieri e venimu di luntanu.

M’arriccumandu la notti e lu jornu,
‘na bona andata e ‘nu bonu ritornu!.

La statua in pietra, domina quel santuario umano che le eleva canti e preghiere ed invoca grazie incessantemente, con fede caparbia: “…eu non mi movu di cca si la grazia Maria non mi fa…” ( io non mi muovo di qua se Maria non mi fa la grazia).
Finalmente la processione. Le mani dei suonatori si animano, le dita volano abilmente sulle canne della zampogna e sui tamburelli, e le note si frangono sulle vetuste costruzioni che circondano il santuario e l’eco le propaga sempre più lontano. (da "Maria A Cristo dentro la Fede aspromontana")

La Locride è un viaggio nella storia che lascia nel cuore un segno indelebile di stupore, di ammirazione e di sgomento.

Anna Lanzetta
continua



martedì 4 ottobre 2011

Viaggiando con artisti e letterati 3, La Locride IV



Siderno nelle acque cristalline del Mar Ionio

Viaggiando nella Locride si entra nel cuore della Magna Grecia e se ne respira la storia.


Ogni angolo della Locride è storia, arte e cultura. Gli usi, i costumi, i riti religiosi, i colori, i suoni e i sapori ne definiscono l’identità.

Reperti archeologici, necropoli bizantine, chiese e monumenti ne indicano gli stili artistici e architettonici e ci riportano al passato della Locride, importante crocevia di culture.




Ingresso a Gerace e il suo bellissimo panorama


« Piena di palazzi bellamente situati, posta su uno stretto margine di roccia [...] Meravigliati da tanti panorami che si presentano da ogni lato; ogni roccia, Santuario o palazzo a Gerace sembravano essere sistemati e colorati apposta per gli artisti... » (Edward Lear, Londra, 1812-Sanremo,1888, Diario di un viaggio a piedi,1847)

Uno dei centri più importanti della Locride è Gerace, città d’arte e città santa perché i suoi monumenti sono espressione di stili e di spiritualità: Gotico, Bizantino, Normanno e Romanico, riti latini e riti ortodossi.

L’abitato presenta un tessuto urbanistico medievale, diviso in Borgo (parte bassa), Borghetto (parte intermedia) e Centro (parte alta).
Il castello normanno, i balconi artistici, i pregevoli portali e le chiese indicano un passato importante, raccontano la storia della città e incantano il visitatore ma in alcuni punti l’abbandono è palese anche se è in atto un tentativo di riutilizzo e di restauro.
L’arte della tessitura e la lavorazione dell’argilla e della ceramica richiamano l’antico artigianato greco.



 

Veduta esterna della Cattedrale

La Cattedrale, costruita dai Normanni tra il 1080 e il 1120 in stile romanico-normanno è orientata, secondo lo stile bizantino, con le absidi a oriente e l’ingresso a occidente. È dedicata a Maria Assunta, ed è il più grande tempio antico della Calabria.

Ogni elemento della costruzione stupisce come i capitelli in stile corinzio-asiatico. Ma è l’ altare a catturare l’attenzione perché, consacrato dal Vescovo GianCarlo Maria Brigantini e dal metropolita Grecoortodosso Mons. Spiridione il 9 luglio 1995 in occasione del 950° anniversario della prima consacrazione della Cattedrale, è il primo altare dopo la separazione delle due Chiese avvenuta nel 1054, ad essere consacrato da due Vescovi in riti diversi. L’altare è dedicato all’unità della Chiesa, come si può rilevare dalle due scritte, in greco e in latino “INA OSIN EN-UT UNUM SINT”.




Cripta greco-bizantina

La parte più antica della Chiesa è la Cripta greco-bizantina, ricavata in parte nella roccia, costruita probabilmente su un antico oratorio bizantino. Le colonne di varia natura e origine sorreggono volte a crociera del IX / X sec. 

Il tesoro della Cattedrale di Gerace conserva oggetti liturgici molto preziosi e tra questi una Croce reliquiario del XII sec. in filigrana con zaffiri e smeraldi. Secondo la tradizione fu il Vescovo Atanasio Calceopylo a portarla da Costantinopoli nel XV sec. Secondo altri studiosi probabilmente dono di Ruggero II alla Cattedrale, proveniente da una bottega orafa di Gerusalemme (notizie ricavate dal dépliant che illustra la Cattedrale).




Il fastoso altare maggiore seicentesco della Chiesa di San Francesco, in marmi policromi intarsiati, costituisce una delle più alte espressioni  del barocco calabrese.

La chiesa di San Francesco d’Assisi, costruita intorno alla metà del XIII secolo, da San Daniele, compagno di San Francesco, è tra i maggiori esempi di stile gotico della Calabria. Sulla facciata si apre un bel portale gotico acuto a triplice archivolto intagliato, ricamato con delicati fregi e motivi geometrici di stile arabo-normanno. La facciata è arricchita da una modanatura, da diversi capitelli e da una svastica raffigurante il sole che, nella simbologia orientale, rappresenta l'eternità.




Sulla stessa piazza, detta delle tre chiese, si erge la Chiesa di San Giovanni Crisostomo (o di San Giovannello). È un piccolo edificio costruito nel secolo XI, e che mantiene ancora oggi la funzione di chiesa con rito greco-ortodosso.
L’atmosfera che vi si respira è di profonda spiritualità. Dal 1993, la Chiesa è stata affidata al Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli e nel 1997 è stata elevata a Santuario ortodosso panitalico.




Per le strade di Gerace


Per le strade, mentre le attraverso, c’è molto silenzio come se il tempo passato avvolgesse col suo manto  il presente e la mia sensazione è che tutto preferisca vivere nella memoria trascorsa di un tempo arabo, normanno o bizantino (ma non senza aspirazione al restauro).

Il gelato è buonissimo e l’invito a ritornare diventa sempre più pressante, mentre varco l’uscita da un territorio (portando con me questi miei scatti), in cui tangibile è la voce di scrittori e poeti, di miti; un territorio capace di dare emozione e commozione per ciò che è stato, per ciò che è, per ciò che può ancora essere.

Anna Lanzetta

Continua