mercoledì 27 giugno 2018

Come in un mare di ghiaccio

Théodore  Géricault, La zattera della Medusa, primo schizzo,1818


Alla luce degli ultimi avvenimenti non posso non pensare a quel quadro che aveva suscitato in me un profondo sgomento e che mi aveva indotto a spiegare ai miei studenti che il diritto alla vita è sacro e inviolabile. Quel quadro, infinite volte analizzato, si rivestiva di pietà cristiana, di fratellanza, di solidarietà, di civiltà, perché essere civili vuol dire acquisire il senso della comunanza e allungare l’occhio verso il bisognoso in un incrocio continuo di mani. “La zattera della Medusa” di Géricault appare oggi in tutta la sua crudezza e modernità. Con una struttura ascensionale sono rappresentati i corpi di coloro che chiedono aiuto e in cima un uomo di colore che tenta di richiamare l’attenzione dei soccorritori, che purtroppo non arrivarono. La scena è agghiacciante: corpi seminudi, corpi che si reggono a vicenda, corpi con la parola spenta per sempre. Basta poco per rapportarsi alla nostra realtà. Allora eravamo nel 1816 e a distanza di anni quella triste vicenda si ripete. Il nostro Mediterraneo pullula di cadaveri il cui numero si perde tra le onde travolgenti, affannate dal pianto di bambini cui la vita è negata. Tra continue risacche, il mare custodisce migliaia di corpi senza nome, mentre ogni possibilità di vita si chiude col divieto di accesso.
Eppure veniamo da una cultura dove l’accoglienza era un elemento primario. Dove è finita la nostra cultura classica pregna di valori, oggi, costantemente elusi?.
Memori del nostro passato, quando eravamo costretti a lunghe file in altri porti, in terre lontane,  delle sciagure che ci hanno devastato in nome della razza o di altre terribili elucubrazioni, della parola “Libertà” che tante vite e sacrifici è costata; consapevoli che nessuno, con parole o fatti, potrà mai toglierci la dignità di sentirci pari agli altri, nè potrà ergersi a giudice a nome di tutti, che mai potrà cancellare in noi i principi di uguaglianza e di solidarietà (oggi purtroppo opinabili) tanto desiderati e ottenuti, che hanno cambiato il corso dell’umanità, dobbiamo uscire dal lungo letargo e riprendere in mano la nostra cultura e i suoi valori, base della nostra civiltà, consapevoli che chiunque si arroghi tali falsi diritti non lavora per la comunità, non conosce le radici della nostra storia, nefando al genere umano, avanza con prepotenza e tracotanza, privo di quel “rispetto” che ci ha reso e che ci rende uomini di sano intelletto.
L’Italia in questo momento è come una nave frantumata dal ghiaccio, che ci chiede di spezzare gli argini del disorientamento e di dialogare con il nostro passato contro chi tenta di affossarlo. La storia ce lo impone e ci richiama alla salvaguardia dei nostri  valori, contro chi vorrebbe ridurci tutti ad albatri con le ali spezzate: Per dilettarsi, sovente, le ciurme / catturano degli àlbatri, marini / grandi uccelli, che seguono, indolenti / compagni di viaggio, il bastimento / che scivolando va su amari abissi. / E li hanno appena sulla tolda posti / che questi re dell'azzurro abbandonano, inetti e vergognosi, ai loro fianchi / miseramente, come remi, inerti / le candide e grandi ali. Com'è goffo / e imbelle questo alato viaggiatore! / Lui, poco fa sì bello, com'è brutto/  e comico! Qualcuno con la pipa / il becco qui gli stuzzica; là un altro/ l'infermo che volava, zoppicando / scimmieggia.
Come il principe dei nembi /è il Poeta che, avvezzo alla tempesta,/ si ride dell'arciere: ma esiliato/  sulla terra, fra scherni, camminare /non può per le sue ali di gigante. (
C. P. Baudelaire, L’albatro da I fiori del male)
Dobbiamo forse credere che non abbiamo più armi per difenderci e per recuperare l’identità perduta? Che nulla più ci attrae di quel corpo dell’Italia che erano i suoi valori? Che siamo albatri-naufraghi ciechi, assuefatti, sepolti da un cumulo di immondizia e da muri che si sgretolano e che malauguratamente si elevano, tristi metafore della realtà che ci circonda? Vogliamo forse che la cultura resti senza difesa nelle mani di chi da troppo tempo non riesce a capirne l’importanza vitale, quale spirito del nostro Paese?.
Quando i giovani gridano e a ragione la propria rabbia, per la mancanza di una giusta collocazione; quando i lavoratori reclamano tutela e diritti; quando i nostri monumenti cadono a pezzi e crolla con essi la nostra storia e la nostra identità; quando all’essere si preferisce l’avere; quando gli interessi di uno solo o di pochi sopravanzano e di gran lunga il bene del paese; quando territori e persone, colpiti da cataclismi, vengono abbandonati; quando la scuola, senza adeguati sostegni, non assolve il compito di educatrice; quando si cerca un’informazione che sia specchio reale del paese, quando si raccoglie per strada la morte dei più deboli e il lezzo dell’abbandono, quando ci guardiamo intorno e non ci riconosciamo, allora ci rendiamo conto con amarezza che questo è il paese dell’apparenza che ha fatto dell’immagine e delle false promesse, la propria sostanza, e che bisogna con urgenza risvegliarsi, recuperare l’orgoglio e l’autostima e agire consorziati per risolvere i veri problemi , iniziando dalla povertà e dal futuro dei giovani.
È tempo, alla luce della ragione, di riascoltare ognuno la propria coscienza e di sentirci accomunati, contro subdoli cambiamenti, in un’unica e ampia famiglia, perchè nella la sorte di ogni  singolo vive l’intera collettività, nell’infinito concetto di umanità.
Alla luce di quanto sta avvenendo, il “Bel Paese” oggi appare come un’utopia velata di malinconia,  un mare di ghiaccio in frantumi, che per sottrarsi alla deriva, chiede a ciascuno di noi di disgelarsi.

martedì 12 giugno 2018

Un ricordo della "Grande Guerra"



  Nomellini, Alle porte d'Italia, 1918, olio su tela

Non mi era mai capitato di toccare da vicino la storia e di viverne direttamente  la tragedia. Ma ai confini,  tra  Trentino-Alto Adige, Friuli- Venezia Giulia  e  Veneto, la storia diventa materia viva e la guerra si tocca con mano. Scavi lunghi e profondi e postazioni di schieramenti, segnano il territorio, una lunga striscia di terra che divideva i nostri soldati da quelli austriaci.

Pagine e pagine, lette e spiegate non rendono la realtà come una scritta che indica un rifugio o la presenza di un bunker.  Il territorio si mette a nudo e il dramma vissuto  appare in tutta la sua portata; le parole si vestono di realtà, di una terribile realtà che nelle cifre mostra il numero dei morti, e la morte incombe feroce, mentre avvolti dal  “Silenzio” di Redipuglia  se ne tenta un conto.

Il 28 giugno del 1914 l’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono di Austria-Ungheria e sua moglie Sofia trovarono la morte nell’attentato di Serajevo, per mano di  Gavrilo Princip,  uno studente appartenente ad un gruppo irredentista bosniaco. Il 28 luglio l’Austria-Ungheria dichiarava  guerra alla Serbia. Era l'inizio della Prima Guerra Mondiale.

1918-2018. Cento anni sono trascorsi  ma nulla si cancella se la memoria ricorda, se l’occhio attento scruta, guarda e scopre la tragedia  della “Grande guerra”  che tra tutti i popoli partecipanti, portò via più di 10 milioni di uomini. Il territorio è disseminato di ricordi: scritte, lapidi, monumenti, ossari, trincee, musei, memoriali, bunker e postazioni di mitragliatrici, testimoniano ai nostri confini la “Grande Guerra”, così detta per il gran numero di popoli che vi parteciparono.

La guerra è morte, devastazione, miseria, dolore e lacrime che nessuno spazio potrà mai contenere. Tra l’entusiasmo degli interventisti, la guerra dispiegò forze, distrusse e lapidò migliaia e migliaia di uomini, lasciando vuote le case, vedove le donne e orfani i bimbi,  rappresentati da Galileo Chini in  “Le vedove”, dove il nero funereo esemplifica la tragica situazione.

Giusta la commemorazione della fine della “Grande Guerra”, affinché nulla si dimentichi, ma questi luoghi implicano un netto rifiuto di tutto ciò che è morte, in nome di tanti giovani che, al di là della propria appartenenza, in quella guerra  lasciarono la vita: Morto. Lacerato. Smembrato. / Mamma, cosa ne dici? Il figlio ti hanno preso! / Tu non lo vedrai mai più. Neppure il suo cadavere. / Forse oggi riceverai una lettera: / "Sono sano, sto bene". / Poter piangere, gridare, urlare! / Più non posso mandare giù tutto ciò, non ci riesco più! / Più non posso stare qui seduto tranquillo! / Tutto finisce. Tutto ha un limite. / Lanciarsi con la testa contro questa roccia, / fino a stramazzare al suolo,  fino a perdere conoscenza. (Robert Skorpil, ufficiale  austriaco, Pasubio 1916-1918).



  

Marino Marini 
La Grande Guerra. 1918-1920   Fronte del Piave

 I soldati sono tutti uguali di fronte alla morte e i versi o il racconto di chi visse l’orrore della guerra e la disperazione di una morte non chiesta, non voluta, esemplificano ancora oggi la realtà di tanti giovani che in guerra lasciano la vita e la memoria va al giovane Adelchi, che nel momento sublime della morte, fa riflettere suo padre,  Desiderio, sul perché  di una  guerra inutile che gli ha strappato la giovinezza. Ancora una volta i linguaggi dialogano e la letteratura  intreccia l’arte per invitarci a riflettere sulla vanità della guerra. Squarcia la realtà la poesia di Ungaretti che esplode nell’animo come la mina di Giulio Aristide Sartorio:  Di che reggimento siete / fratelli? / Parola tremante / nella notte / foglia appena nata / Nell'aria spasimante / involontaria rivolta / dell'uomo presente alla sua / fragilità (Fratelli).

La guerra è aberrazione, è “il sonno della ragione” che genera mostri, è la negazione della vita.

Di fronte ai monumenti che ne perpetuano la memoria non si può restare indifferenti.  Si viene sopraffatti da una grande emozione e i morti passano, visi indefiniti, evanescenti, corpi sopraffatti giacenti gli uni  accanto agli altri stretti in muta preghiera come nella “Grande Guerra” di Marino Marini.

Nessuna parola nutre il pensiero di fronte ai nomi, che ricordano i morti di ogni età, molti, infiniti morti che la memoria si rifiuta di contenere in nome della vita.

Sacrari, ossari, scritte sparse sul territorio popolano i nostri confini, conservano intatta la memoria del sacrificio dei nostri soldati, dei nostri giovani.

É  davanti al monumento ai “ Ragazzi del ’99”, che l’animo non regge, il passo si ferma e un tumulto assale lo spirito che  si rifiuta di accettare un sacrificio troppo grande per  essere contenuto e in risposta emerge a simbolo, potente il rosso-sangue “Sulla guerra” di Dodero. Diciotto anni appena compiuti e falciati da una guerra implacabile. Emerge dal profondo del cuore,  come un grido lacerante,  l’appello  del  polacco Ernst Friedrich (1894-1967), forse utopico ma possibile: <<Io mi rifiuto! La nostra volontà è più forte della violenza, della baionetta e del fucile! Ripetete queste parole: “Io mi rifiuto!”. Mettetele in pratica, e in futuro la guerra sarà  impossibile. Tutto il capitale del mondo, i re e i presidenti non possono nulla contro tutti i popoli che insieme gridano:NOI CI RIFIUTIAMO!>>  (Ernst Friedrich, Guerra alla guerra, 1924).



Prevale la commozione, mentre il Piave scorre lento davanti agli occhi “calmo e placido”in un paesaggio meraviglioso e ci riporta al lontano 24 maggio, mentre troneggia sul Montello un  Sacrario che custodisce migliaia di nomi.

I percorsi vanno in ogni direzione, cimeli, rifugi, trincee, postazioni costruiscono la storia, la nostra storia.

L’animo affranto stenta a staccarsi e nel silenzio che incombe non trova risposte ai tanti perché delle guerre. Forse la storia non è maestra di vita, non insegna sufficientemente il valore della vita, se le guerre si sono ripetute e continuano a ripetersi in ogni angolo del nostro pianeta!.

Caporetto,  altopiano del Carso,  Monte Grappa, altopiano di Asiago narrano il dolore di quanti vi morirono.

Nemmeno il paesaggio verdeggiante e pieno di vita e di luce riesce a lenire il dolore che provoca nel monumento eretto a  ricordo la presenza di un -elmetto-.