mercoledì 20 novembre 2019
mercoledì 9 ottobre 2019
Cantar d’amore
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Umberto Mastroianni, Farfalla notturna (1970) |
Napoli è un’armonia di colori e di profumi; è storia, è cultura, è arte in ogni strada e in
ogni vicolo. Napoli, felice e armoniosa, custode di tesori e di misteri è melodia
di suoni, di rumori e di schiamazzi. Napoli è il silenzio che si ascolta nelle
poesie in musica dove il suono sposa l’arte nella creazione di quadri in cui è
presente il tocco sognante dell’amore:
Palomma ‘e notte
La canzone “Palomma e notte” nacque da una poesia
di Salvatore Di Giacomo dedicata alla
donna da lui amata: Elisa Avignano. “Quando si conobbero (nel
1905) Salvatore ed Elisa, lui era un uomo di quarantacinque anni, lei una
ragazza di 26. Salvatore era un bell’uomo, un vero napoletano dagli occhi
sognanti, un poeta già celebre, riconosciuto, i suoi versi erano cantati
dovunque, e tutto questo creava intorno alla sua persona un’aura romantica, un
fascino che poteva fare innamorare qualsiasi ragazza, soprattutto una ragazza
come Elisa. Elisa era «’ na giovane vestuta / cu ‘ na vesta granata, auta e
brunetta». Così dice Carlo Fedele, riportando un intervento di Raffaele La
Capria sul Corriere della Sera di qualche anno fa. Elisa era
per quei tempi una ragazza emancipata se ebbe l’ardire di scrivere al poeta una
lettera << Mio buono e caro signor Di Giacomo… se non fossimo
stati in mezzo alla gente ve lo avrei detto ieri stesso quanto sto per dirvi
ora. Io vi amo: ecco la verità, e lo so e lo sapevo da un pezzo, e non volevo
confessarlo né a voi né a me. Io vi amo, e ora ve lo dico così com’ è. È bene,
è male dirvelo? Che cosa ne penserete? Io non so… Sappiatela tutt’ intera
questa verità, sappiatela così rudemente, così bruscamente com’ è sempre
l’impeto dell’anima mia: sappiatela e fate quel che volete…».
Il loro amore
travolgente e passionale fu spesso ostacolato dalla madre di lui, alla
quale il poeta era molto legato. Si sposarono nel 1916 ma il matrimonio fu
spesso travagliato da accuse e litigi,
alcuni provacati dalla stessa madre. Quando
Di Giacomo morì il 5 aprile del 1934,
Elisa impazzì dal dolore e distrusse tutte le lettere e le poesie che il marito
le aveva scritto, ma per fortuna si
dimenticò di un cassetto dove c’erano gli scritti che andavano dal 1906 al
1911. Grazie a quel cassetto e alle lettere in esso ritrovate, è stato
possibile ricostruire la storia del loro amore e trovare questa poesia dai toni
lievi, dolci e profondamente sentimentali che è diventata un classico della canzone napoletana. Il
testo venne musicato nel 1907 da Francesco Buongiovanni.
Tiene mente 'sta palomma,/
comme gira, comm'avota, / comme torna n'ata vota / sta ceròggena a tentá! /
Palummè' chist'è nu lume, / nun è rosa o giesummino... / e tu, a forza, ccá
vicino / te vuó' mettere a vulá!...
/ Vatténn''a lloco! / Vatténne,
pazzarella! / va', palummella e torna, / e torna a st'aria / accussí fresca e
bella!... /'O bbi' ca i' pure / mm'abbaglio chianu chiano, / e che mm'abbrucio
'a mano / pe' te ne vulé cacciá?..
Carulí', pe' nu capriccio,
/ tu vuó' fá scuntento a n'ato... / e po' quanno ll'hê lassato, / tu, addu
n'ato vuó' vulá... / Troppi core staje strignenno / cu sti mmane piccerelle; /
ma fernisce ca sti scelle / pure tu te puó' abbruciá! / Vatténn''a lloco!
Torna, va', palomma 'e notte, / dint'a ll'ombra addó' si' nata... torna a st'aria 'mbarzamata / ca te sape cunzulá... / Dint''o scuro e pe' me sulo / 'sta cannela arde e se struje... / ma ch'ardesse a / tutt'e duje, / nun 'o ppòzzo suppurtá! / Vatténn''a lloco! ( Di Giacomo – Buongiovanni )
Torna, va', palomma 'e notte, / dint'a ll'ombra addó' si' nata... torna a st'aria 'mbarzamata / ca te sape cunzulá... / Dint''o scuro e pe' me sulo / 'sta cannela arde e se struje... / ma ch'ardesse a / tutt'e duje, / nun 'o ppòzzo suppurtá! / Vatténn''a lloco! ( Di Giacomo – Buongiovanni )
Protagonista del testo è una farfalla che
rischia di bruciarsi poiché si avvicina
troppo al lume. Le analogie sono evidenti: anche il poeta resta abbagliato
dalla fiamma della bellezza e per allontanare la farfalla-Elisa, proteggendola,
finisce per bruciarsi.
La lettura diventa musica e la melodia si
muta in espressione viva, nella ricerca di parole ad effetto dove l’arte entra
a rappresentare magnificamente il tutto.
Salvatore Di Giacomo, Napoli, 1860.1934,
poeta, drammaturgo e saggista. Autore di poesie in lingua napoletana, molte delle quali musicate.
Insieme ad Ernesto Murolo, libero Bovio e E.
A. Mario è stato un notevole rappresentante dell’ “epoca d’oro” della canzone napoletana.
Umberto
Mastroianni, Farfalla notturna,
(1970)
Incisione e tecnica mista su piombo
cm. 25x35
cm. 25x35
mercoledì 25 settembre 2019
Il tesoro di Pazzano: Santa Maria delle Grazie
Eremo di Monte Stella |
Tra gli speroni rocciosi dei
monti “Stella” e “Consolino” è incastonato Pazzano, un paese con case accatastate, stretti vicoli
detti “magnani” e ripide scale esterne. Con i suoi 529 abitanti
è il paese più piccolo della Vallata dello Stilaro, « ... questo è Pazzano: paese di pietra e paese
di ferro. Sta nell'aria e si respira il ferro: sgorga e si rovescia dalla bocca
delle miniere, rossastro, sottilissimo, dilagante in flutti di polvere. »
(Matilde Serao, agosto 1883). Giuseppe Coniglio nella poesia Pazzanu dice:« Pazzanu è ncassaratu nta
ddu timpi / a menza costa tra a muntagna e u mari / duva na vota nc'eranu i
minieri i carcaruoti e l'armacatari...>>. Nel periodo borbonico, Pazzano
fu importante per essere il principale centro minerario di estrazione del ferro
di tutto il Mezzogiorno. Le vallate dello Stilaro e dell’Allaro, avvolte da
ripide montagne, coperte da boschi impenetrabili, ricche di sorgenti e di
grotte, costituirono il rifugio più adeguato per gli asceti. A partire dal
settimo secolo, si popolarono di eremi, laure e cenobi, divenendo la culla
della cultura bizantina in Calabria. Nel
territorio di Pazzano, a 650 m di altezza, sul
versante orientale del monte Cocumella, oggi monte Stella, un luogo
aspro e selvaggio, le cui rocce sono
costituite da calcari del Giurassico, si apre una grotta naturale al cui interno si
trova la Madonna della Stella, una
statua di marmo bianco del 1562 di probabile fattura gaginesca. È questo il tesoro
di Pazzano: il Monastero di Monte Stella. La discesa, per accedervi, lungo i 62
scalini scavati nella pietra, è una descensio ad inferos, un’immersione nelle viscere della terra, attraverso “u rimitiedu”, un
anfratto lungo e stretto, privo di luce, dove regna una persistente penombra. Sin
dall'inizio alla statua furono attribuiti poteri taumaturgici. All’interno della
grotta, oltre alla statua di Santa Maria della Stella, si possono osservare sulle
pareti frammenti di antichi affreschi bizantini: la Trinità, l’arcangelo
Michele, l’adorazione dei pastori, la
Pietà; di particolare interesse è il frammento di un affresco
di arte bizantina (IX-XI sec.) raffigurante Santa Maria Egiziaca che riceve
l'eucarestia dal monaco Zosimo. Si ritiene
che sia il più antico affresco bizantino dell’Italia
meridionale e può essere considerato come indizio di una possibile esperienza
di eremitismo femminile. Un poeta anonimo dell'Ottocento, citato in Mario
Squillace, L'Eremo di S. Maria della
Stella, così dice: «Saldo t'innanzi e come
sempre care / mi sono le tue falde e le tue cime / non ti posso mirare senza
sognare / non ti posso mirar senza far rime». E un canto popolare, citato
in Giovanni Musolino, Santi eremiti italogreci: grotte e chiese rupestri in
Calabria così recita: <<Accui nci cerca grazzia nci nda duna /
cu avi u cori offisu nci lu sana / E io, Madonna mia nda ciercu una / nchianati
‘n paradisu st’arma sana>>. Da eremo della Chiesa bizantina diventò
col passare degli anni santuario della Chiesa cattolica; le vecchie icone
bizantine furono abbandonate, e non sono state mai più ritrovate. Vari miti e
leggende sono sorti intorno alla statua della Madonna come quello che racconta
che un tempo il monte fosse un vulcano, che in esso vivesse il diavolo,
successivamente scacciato dalla Madonna.
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Santa Maria Egiziaca |
Giuseppe Coniglio, conosciuto
come “U poeta” ( Pazzano,1922-
Catanzaro, 2006), autore di diverse opere in dialetto pazzanito ha scritto di
Pazzano. Nel 1973 ha
pubblicato la sua prima raccolta di poesie “Calabria contadina”, nel 1984 la
seconda “Quattru chjacchjari e dui arrisi”, e l’ultima nel 1996 “A terra mia”
in cui è compresa la poesia “A stida” : <<Lu forestieru ca
Pazzanu pungia / e guarda all'intrasattu supa u munti / vida na Cruci chi nci
vena nfrunti, / para co cielu cu da terra jungia. / E sempa dà i vrazza
spalancati / cuomu c'abbrazza ntuornu nzo chi vida / de virdi munti a di tierri
bruscjati: / chida esta a Santa Cruci
della Stida… E dà, nta fundità della caverna / regna la paci santa e l'armonia:
/ a du luci tremanti e na lanterna / vigila e prega a Vergini Maria!>>. E
ancora Luigi Consolo: <<sopra il monte scese rilucente / l'astro di
fiamma nella notte chiara / di un immortale tremito di stelle. / Quando tra i
cerri e i frassini del monte / la solitaria porpora del sole / tinse le rocce
pendule dell'antro, / s'effuse un inno di commosso amore / che lungo i freschi
rivolti correnti / discese a valle, dilagò da monte / a monte, diventò battito
insonne / da mare amre: sul dolore umano / ora la dolce Vergine Maria / nella quiete
del profondo speco / le bianchi mani alla preghiera giunge / soavemente: e
l'odono i mortali, / curvi nell'ombra della fosca sera>>. Il 15 agosto di
ogni anno si effettua un pellegrinaggio alla grotta santuario della Madonna
della stella. La festa celebra l'Assunzione della Madonna che ricorda la Dormitio Virginis bizantina. Scoprire la Locride, terra
antichissima di suoni, di profumi e di miti è un’esperienza che non si
dimentica tra mille emozioni. Passo dopo
passo, tra suggestioni e scoperte se ne apprezza l’origine millenaria che si
perde in un tempo infinito ma viva e presente con il suo carico di bellezza
ancestrale. Viaggiando, si ritorna sulle orme della storia dove ognuno può
leggere in ogni roccia un passato che commuove, che pone interrogativi e che diventa
a ogni passo una meravigliosa scoperta.
venerdì 13 settembre 2019
A passi di danza. Isadora Duncan e le arti figurative in Italia tra Ottocento e Avanguardia
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Isadora Duncan e l’arte della danza |
Eleganza, raffinatezza, armonia di
forme e di colori si intrecciano nella mostra
“A passi di danza. Isadora Duncan e le arti figurative in Italia tra
Ottocento e Avanguardia”.
Isadora Duncan viene celebrata in
tutta la sua magnificenza come donna e come artista, unitamente agli artisti
che la conobbero e la celebrarono. Plauso ai curatori: Maria Flora Giubilei e Carlo Sisi. ![]() |
Isadora Duncan |
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Plinio Nomellini La donna dei fiori 1910 ca acquar su carta coll. priv. Firenze |
Non solo mostra ma una panoramica
sull’arte ad ampio respiro dove l’occhio vive l’imbarazzo della scelta e il
cuore si inebria palpitante di bellezza.
Firenze, Villa Bardini e Museo Bardini
13 aprile 22 settembre 2019
Firenze, Villa Bardini e Museo Bardini
13 aprile 22 settembre 2019
martedì 3 settembre 2019
Uno straordinario reperto: La Sfinge di Vulci
La Sfinge di Vulci |
Il Museo Archeologico Giovannangelo Camporeale di Massa Marittima (Gr)
offre in visione al pubblico un reperto archeologico fantastico, degno, per
raffinatezza, di ammirazione. Un unico reperto, una sfinge etrusca risalente al
VI secolo a. C, ritrovata nel 2012, durante
una campagna di scavo, proveniente dalla necropoli dell’Osteria a Vulci
(Vt), uno dei più importanti centri dell’Etruria. La Sfinge era collocata
nella tomba 14, detta “Tomba della
Sfinge”. Il dromos, un lungo
corridoio di 28 metri,
che conduceva all’ingresso del monumentale ipogeo funerario, da cui si accedeva
al vestibolo e alle camere funerarie, databili in un arco di tempo compreso tra
la metà del VI e l'inizio del V sec. a.
C, testimoniava con la sua
grandezza, l’appartenenza della tomba a
una nobile famiglia che l’aveva destinata alla sepoltura dei suoi membri. A
vederla, la Sfinge,
animale mitologico, si ammanta di mistero e di curiosità, che affascinano il visitatore ed è bellissima
nella perfetta fattura dove l’umano e il fantastico si incrociano in una
perfezione che si acuisce
nell’acconciatura. Si solleva la tenda che la cela e si viene introdotti in un mondo antico e leggendario. La Sfinge di Vulci, statua funeraria, scolpita nel nenfro, roccia tufacea di
origine vulcanica, ha testa di donna,
corpo di leone, coda di serpente e ali d’aquila. Un tempo teneva lontani dai
morti gli spiriti maligni ma poi ha assunto il ruolo di “guardiana” per proteggere i defunti e
accompagnarli nell’Aldilà. L’esposizione è accompagnata da pannelli grafici e
informativi in cui è raccontato il
contesto del ritrovamento, il rituale funebre e approfondimenti sull’origine e
il significato della Sfinge."In seguito ad un'attenta opera di pulitura
delle superfici, sono state evidenziate tracce di pigmento di colore ocra
rossa, ad occhio nudo non sempre percettibili ed in contrasto con il colore
grigio della ruvida pietra vulcanica in cui è stata scolpita l'immagine
- racconta l'archeologo della società Mastarna Carlo Casi - Le
tracce di pigmento sono riconoscibili in corrispondenza del collo, sotto il
mento e accanto all'occhio destro. La prosecuzione dello studio consentirà di
stabilire la relazione con la pratica, assai frequente nel mondo antico, di
ricoprire le superfici delle sculture e degli apparati decorativi
architettonici con colori a forti tinte, oggi in gran parte scomparsi". «Questa
è una raffinata testimonianza – spiega ancora il direttore scientifico di
Fondazione Vulci, Carlo Casi - di quella che fu una tradizione propria della
produzione artistica vulcente del VI secolo a.C. In questo periodo botteghe
vulcenti scolpirono sfingi, leoni, pantere, arieti, centauri e mostri marini,
vigili guardiani della quiete eterna dei morti. Ma già intorno al 520 a.C. la produzione di
queste statue venne a cessare, forse nel tentativo di porre un limite alle
ostentazioni di lusso ormai ritenute inopportune».Tutto il Museo è degno di una
visita, perché ogni reperto parla di un
passato che reca le orme della storia che un accurato lavoro rende tangibili.
La mostra sarà aperta al pubblico fino al 31 agosto tutti i giorni dalle ore 11 alle ore 13 e dalle 15 alle 18. Dal 1 settembre al 3 novembre con gli stessi orari ma chiusa il lunedì. L’accesso è compreso nel prezzo del biglietto del Museo Archeologico Etrusco Giovannangelo Camporeale. Info: 0566906366,
email: museimassam@coopzoe.it.
La mostra sarà aperta al pubblico fino al 31 agosto tutti i giorni dalle ore 11 alle ore 13 e dalle 15 alle 18. Dal 1 settembre al 3 novembre con gli stessi orari ma chiusa il lunedì. L’accesso è compreso nel prezzo del biglietto del Museo Archeologico Etrusco Giovannangelo Camporeale. Info: 0566906366,
email: museimassam@coopzoe.it.
domenica 18 agosto 2019
Polsi : “A Madonna dâ Montagna ”
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Il tesoro di Polsi : “A Madonna dâ
Montagna ”
Ogni luogo della Locride richiama a un passato non sepolto ma vivo e
serpeggiante essenzialmente nella ritualità.
San Luca è un luogo che si
ammanta di fascino e di mistero. Le sue origini risalgono a tempi lontani
quando le avverse condizioni spinsero gli abitanti di Potamìa a cercare una
nuova terra. Erano pastori d’Aspromonte che dopo un lungo cammino si fermarono in un luogo, dove i pastori
portavano le greggi durante i rigidi inverni. Era il 18 ottobre 1592 e data la
ricorrenza del santo, chiamarono il paese che costruirono San Luca e presso la frazione di Polsi sorse uno dei monasteri diventato luogo
"mariano" di forte richiamo, essenzialmente per i calabresi e i
siciliani.
A 13 Km
da San Luca, ai piedi di Montalto, la più alta cima dell’Aspromonte, sorge in
una profonda vallata il Santuario dedicato alla “Madonna della Montagna”, detta
in dialetto reggino “A Madonna dâ Montagna”. Fu un tempo
romitorio dei monaci bizantini che vi si rifugiarono per sfuggire alle
persecuzioni.
Nel secolo XI il luogo, ormai abbandonato, si rivestì di
leggenda. Si racconta che nel posto dove ora sorge la chiesa, sia stata
rinvenuta da un pastore, una strana Croce di ferro, dissotterrata
miracolosamente da un torello.
La
Croce è tutt’oggi conservata nel Santuario di “Santa Maria di
Polsi”e a diffondere il culto della devozione alla Croce e alla Madonna furono
i monaci basiliani, praticanti il rito greco.
Questo Santuario, ha
scritto l'illustre latinista e poeta Francesco Sofìa Alessio (Radicena, 1873-Reggio Calabria, 1943) nella
prefazione del suo poemetto Feriae montanae, fu fondato al tempo di
Ruggiero il Normanno, dopo che un pastore vide un torello genuflesso dinanzi ad
una Croce greca, che si conserva ancora, e dopo l'apparizione della Vergine,
che volle un tempio nella Valle di Polsi per richiamare intorno a sé i fedeli
di Calabria e di Sicilia. Innumerevoli sono i miracoli operati dalla Vergine
della Montagna e le grazie concesse.
Nell'anno 1771, i Principi di
Caraffa, ottenuta per intercessione di Maria prole maschile, si recarono al
Santuario per ringraziare la
Vergine, ma giunti presso Bovalino il bambino morì. I
Principi, composto il corpicino in una bara, ripresero il viaggio con la ferma
fede che la Madonna
lo avrebbe restituito in vita. Entrati nel Santuario esposero sull'altare il
cadaverino e cominciarono a recitare le litanie, e quando si venne
all'invocazione Sancta Maria De Polsis il bambino aperse gli occhi e tornò in
vita. La bara si conserva ancora nel Santuario.
L'episodio è riportato in un noto
canto popolare pubblicato nel volume "Storia e Folklore Calabrese".
Nella chiesa di Polsi si venera un bellissimo simulacro della Madonna, in pietra tufacea, scolpito a tutto tondo da maestranze siciliane o napoletane. Nulla si sa dell’arrivo di questa statua nella valle, a parte le leggende. Del secolo XVIII è, invece, la statua lignea della Madonna, donata da Fulcone Antonio Ruffo, principe di Scilla e portata a Polsi nel 1751.
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Madonna, particolare
Nella chiesa di Polsi si venera un bellissimo simulacro della Madonna, in pietra tufacea, scolpito a tutto tondo da maestranze siciliane o napoletane. Nulla si sa dell’arrivo di questa statua nella valle, a parte le leggende. Del secolo XVIII è, invece, la statua lignea della Madonna, donata da Fulcone Antonio Ruffo, principe di Scilla e portata a Polsi nel 1751.
Corrado Alvaro nella sua monografia
“Calabria”, scrive: Dirò di una
festa che è forse la più animata delle Calabrie. Le feste fanno conoscere la
natura degli uomini. Nell’Aspromonte abbiamo un Santuario che si chiama di
Polsi, ma comunemente della Madonna della Montagna. È un convento basiliano del
millecento, uno dei pochi che rimangono in piedi nelle Calabrie. La Madonna è opera siciliana
del secolo XVI, scolpita nel tufo e colorata, con due occhi bianchi e neri,
fissi, che guardano da tutte le parti.
Ognuno fa quello che può per fare onore alla Regina della festa: la
gente ricca può portare, essendo scampata da un male, un cero grande quanto la
persona di chi ha avuto la grazia, o una coppia di buoi, o pecore, o un carico
di formaggio, di vino, di olio, di grano; ci sono tanti modi per disobbligarsi
con la Vergine
delicata, come la chiamano le donne. Uno, denudato il petto e le gambe, si
porta addosso una campana di spine che lo copre dalla testa ai piedi, spine
lunghe e dure come crescono nel nostro spinoso paese, e che ad ogni passo
pungono chi ci sta in mezzo. Una femminella fa un tratto di strada sulle
ginocchia; e così le ragazze fanno la strada ballando, e balleranno giorno e
notte per le ore che hanno fatto il voto, fino a che si ritrovano buttate in
terra o appoggiate al muro, che muovono ancora i piedi. E i cacciatori, poi,
che fanno voto di sparare alcuni chili di polvere; in quei giorni non si parla
di porto d’armi, e i Carabinieri lo sanno. Gli armati si dispongono nei boschi
intorno al Santuario e sparano notte e giorno […].
Si vedono le mille facce
delle Calabrie. Le donne intorno dicono le parole più lusinghiere alla Madonna,
perché si commuova. […] Sul banco coperto di un lino, le donne buttano gli
orecchini e i braccialetti; gli uomini tornati da una fortunata migrazione le
carte da cento e da più: è una montagna d’oro e di denaro che per la prima
volta nessuno guarda con occhi cupidi. La Vergine
guarda sopra tutti, e i gioielli degli anni passati la coprono come un fulgido
ricamo […].
Al terzo giorno di Settembre
si fa la processione e si tira fuori il simulacro portatile […] tra lo sparo
dei fucili che formano non si sa che silenzio fragoroso, non si sente altro che
il battito di migliaia di pugni su migliaia di petti, un rombo di umanità viva
tra cui l’uomo più sgannato trema come davanti a un’armonia più alta della
mente umana. Le semplici donne che non si sanno spiegare nulla, si stracciano
il viso e non riescono neppure a piangere […].
Stefano De Fiores nato a San
Luca nel 1933, missionario monfortano, dice: Dinanzi a questa statua si
sprigiona il canto o la preghiera spontanea dei fedeli: parlano a lei, o
lasciano che un pianto dirotto ricordi gli avvenimenti drammatici della vita, o
lavi con lacrime purificatrici i più tristi trascorsi. A Polsi si evidenziano
le note della pietà mariana popolare: il senso di una presenza viva dotata di
potenza e bontà, l'attrattiva della bellezza, l'esigenza di contatto immediato,
il bisogno di far festa…. (Da: "Storia e folklore calabrese"
dell'autore).
Vergini bella, japrìtindi li porti, / ca stanno arrivando li devoti Vostri.
E nui venimu sonando e cantandu, / Maria di la Montagna cu’ Vui m’arriccumandu.
Vergini bella, dàtindi la manu, / ca simu forestieri e venimu di luntanu.
M’arriccumandu la notti e lu jornu, / ‘na bona andata e ‘nu bonu ritornu!.
La statua in pietra, domina quel santuario umano che le eleva canti e preghiere ed invoca grazie incessantemente, con fede caparbia: “…eu non mi movu di cca si la grazia Maria non mi fa…” ( io non mi muovo di qua se Maria non mi fa la grazia).
“Finalmente la processione. Le mani dei suonatori si animano, le dita volano abilmente sulle canne della zampogna e sui tamburelli, e le note si frangono sulle vetuste costruzioni che circondano il santuario e l’eco le propaga sempre più lontano”. (da "Maria A Cristo dentro la Fede aspromontana").
La Locride è un viaggio nella storia che lascia nel cuore un segno indelebile di stupore, di ammirazione e di sgomento.
E nui venimu sonando e cantandu, / Maria di la Montagna cu’ Vui m’arriccumandu.
Vergini bella, dàtindi la manu, / ca simu forestieri e venimu di luntanu.
M’arriccumandu la notti e lu jornu, / ‘na bona andata e ‘nu bonu ritornu!.
La statua in pietra, domina quel santuario umano che le eleva canti e preghiere ed invoca grazie incessantemente, con fede caparbia: “…eu non mi movu di cca si la grazia Maria non mi fa…” ( io non mi muovo di qua se Maria non mi fa la grazia).
“Finalmente la processione. Le mani dei suonatori si animano, le dita volano abilmente sulle canne della zampogna e sui tamburelli, e le note si frangono sulle vetuste costruzioni che circondano il santuario e l’eco le propaga sempre più lontano”. (da "Maria A Cristo dentro la Fede aspromontana").
La Locride è un viaggio nella storia che lascia nel cuore un segno indelebile di stupore, di ammirazione e di sgomento.
mercoledì 7 agosto 2019
A mia sorella Assunta per la sua dipartita
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Cara sorella
Che il
profumo di questi fiori, ti arrivi fino al cuore
|
Cara Assunta,
mai
come ora sentiamo forte il legame affettivo che ci ha uniti nel
tuo percorso di
vita.
La
memoria corre lungo il filo dei ricordi e prendono vita i momenti trascorsi insieme
di gioia, di felicità, di dolore, di commozione, di tante attese. Nel ricordo
prendono forma i sentimenti che tu hai nutrito, in primis, il grande amore per
la famiglia, l’incanto delle tue passioni, del tuo attaccamento alla vita che
abilmente e tenacemente hai difeso; le tue infinite curiosità verso il mondo che
appieno avresti voluto esplorare, l’amore per la cultura e le letture da te
predilette, la tua prolifica manualità, dei lavori con cui hai ricamato la tua
vita, rendendola preziosa e il senso dell’amicizia da te largamente profusa.
Sei
stata in ogni circostanza, anche in
quelle avverse, una donna forte, di grande dignità, ferma nei propositi, negli
obiettivi da raggiungere e nella difesa del tuo pensiero nutrito di grande
intelligenza, fedele sempre ai valori della famiglia, della religione, degli affetti
dispensati senza risparmio.
In
questo ricordo, oggi, siamo tutti intorno a te, come un cenacolo, e tu ne sarai
certamente compiaciuta, a ricordare e a raccontarci il tempo trascorso che apparentemente sopito oggi torna a rivivere, e
vivrà, perché non muore chi nel ricordo
lascia una memoria di sé, ricca di nobili sentimenti.
Un
grande affetto ti circonda: i tuoi figli adorati, le nuore e nipoti, da te
tanto amati, fratello e sorelle, cognati, cognate e prole, quanti ti hanno amato e che oggi con la loro
presenza, ti rendono un bellissimo omaggio.
Carissima
Assuntina,
il
tempo è tiranno, e tu hai già iniziato un nuovo cammino intessuto di luce e di
amore, tra una meravigliosa sinfonia di affetti. Ti arrivi fino al cuore la
fragranza dei nostri fiori e l’abbraccio più affettuoso di tutti noi che nessun tempo
potrà mai cancellare.
Dalla tua sorella Anna
Sarno 5 agosto 2019
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