martedì 5 ottobre 2010

La mia vita? Un battello ebbro


J. M. W Turner, Londra, 1775-Chelsea,1851
Le bateau négrier

Sono nata a S. Leucio del Sannio, un paese in provincia di Benevento, negli anni del dopoguerra e ho vissuto da piccola le angustie del tempo, crescendo poi tra migliori agi, sogni e attese.
Non  conservo ricordi di questo luogo, tranne le poche notizie attinte dai racconti di mia madre.
Avevo sette mesi quando fui portata a Sarno, un paese in provincia di Salerno, dove ho trascorso la mia fanciullezza e parte della giovinezza; il paese dove, ritornando, ritrovo in ogni angolo i miei ricordi lieti e tristi.    
Ho conseguito la laurea in  Materie Letterarie presso l’università degli studi di Salerno e  mi sono dedicata poi agli studi pedagogici e alla ricerca metodologica.
Sono felicemente  sposata e madre di tre figli.
Dopo varie esperienze di insegnamento nella Scuola Media di I° grado nella provincia di Salerno, mi sono trasferita a Firenze, dove ho insegnato Lettere negli istituti Tecnici e Professionali, iniziando però la mia esperienza sui monti di  Firenzuola e poi a  Greve in Chianti.
Con l’insegnamento, passione non ancora esaurita, ho trascorso la mia vita tra  i banchi di scuola, in compagnia di adolescenti e di  giovani, attingendo e trasmettendo conoscenze.
Ho prediletto l’“arte” in tutte le sue espressioni e ho cercato  di uscire dall’usuale, dall’ordinario e dal consueto, con un insegnamento basato sull’interazione tra letteratura, arte, storia e musica.
In conformità, ho realizzato progetti e moduli didattici sia curriculari che extracurriculari, aperti anche agli adulti.
La fantasia, l’immaginazione, la creatività e l’estro, hanno guidato me e sono stati punti essenziali per gli studenti, perché si valorizzasse appieno la loro espressività e la loro libera soggettività.
Queste pagine ne riporteranno un’esemplificazione come già nei file di collegamento.
Convinta che il sapere non ha limiti né di tempo né di spazio, ho ascoltato e trasmesso ciò che ho appreso. Ho bevuto con voluttà alle fonti della conoscenza e ne ho diffuso ogni elemento.
La curiosità mi ha  guidato e ancora mi guida.
La “parola” mi è amica, nelle sue  infinite combinazioni di suoni, di detti, di pensieri.
Mi considero un vascello che naviga tra le mille cose del mondo e che non ha ancora  trovato un punto d’approdo. In questa scelta la voce di Rimbaud è stata maestra.

Spiegare? No! Grazie
Un mio studente mi disse un giorno, mentre io mi accaloravo a spiegare, che la poesia non si spiega. D’apprima, colta di sorpresa, rimasi stupita, poi capii e tacqui.
Nel  silenzio  che avvolgeva l’aula, ognuno lesse in silenzio la poesia.
Non una parola, non un sibilo…ognuno scelse i propri versi, ognuno sottolineò le parole a sé più consoni e in esse si rispecchiò.
Ancora silenzio! Spazio per la riflessione.
Ci guardammo negli occhi e ognuno aveva in essi una luce diversa.
Avevo capito!
Ci sono poesie che non si devono spiegare, perché nel silenzio si mutua il rapporto stretto e diretto tra il poeta e il lettore.
Anch’io avevo scelto i miei versi e in silenzio me ne gustavo il senso che ritrovavo in me. 



                                       

IL BATTELLO EBBRO

Appena presi a scendere lungo i Fiumi impassibili,
Mi accorsi che i bardotti non mi guidavan più:
Ignudi ed inchiodati ai pali variopinti,
I Pellirosse striduli li avevan bersagliati.

Non mi curavo più di avere un equipaggio,
Col mio grano fiammingo, col mio cotone inglese.
Quando assieme ai bardotti si spensero i clamori,
I Fiumi mi lasciarono scender liberamente.

Dentro lo sciabordare aspro delle maree,
L'altro inverno, più sordo di una mente infantile,
Io corsi! E le Penisole strappate dagli ormeggi
Non subirono mai sconquasso più trionfante.

La tempesta ha sorriso ai miei risvegli in mare.
Più lieve di un turacciolo ho danzato sui flutti
Che eternamente spingono i corpi delle vittime.
Dieci notti, e irridevo l'occhio insulso dei fari!

Più dolce che ai fanciulli qualche acida polpa,
L'acqua verde filtrò nel mio scafo di abete
E dalle macchie rosse di vomito e di vino
Mi lavò, disperdendo il timone e i ramponi.

Da allora sono immerso nel Poema del Mare
Che, lattescente e invaso dalla luce degli astri,
Morde l'acqua turchese, dentro cui, fluttuando,
Scende estatico un morto pensoso e illividito;

Dove, tingendo a un tratto l'azzurrità, deliri
E ritmi prolungati nel giorno rutilante,
Più stordenti dell'alcol, più vasti delle lire,
Fermentano i rossori amari dell'amore!

Io so i cieli che scoppiano in lampi, e so le trombe,
Le correnti e i riflussi: io so la sera, e l'Alba
Che si esalta nel cielo come colombe a stormo;
E qualche volta ho visto quel che l'uomo ha sognato!

Ho visto il sole basso, fosco di orrori mistici,
Che illuminava lunghi coaguli violacei,
Somiglianti ad attori di antichi drammi, i flutti
Che fluivano al tremito di persiane, lontano!

Sognai la notte verde dalle nevi abbagliate,
Bacio che sale lento agli occhi degli Oceani,
E la circolazione delle linfe inaudite,
E, giallo e blu, il destarsi dei fosfori canori!

Ho seguito, per mesi, i marosi che assaltano
Gli scogli, come mandrie di isterici bovini,
Stupito che i lucenti piedi delle Marie
Potessero forzare i musi degli Oceani!

Ho cozzato in Floride incredibili: fiori
Sbocciavano fra gli occhi di pantere con pelli
D'uomo! In arcobaleni come redini tesi
A glauche mandrie soto l'orizzonte dei mari!

Ho visto fermentare gli stagni enormi, nasse
Dove frammezzo ai giunchi marcisce un Leviatano!
Frane d'acqua scuotevano le immobili bonacce,
Cateratte lontane crollavano nei baratri!

Ghiacciaci, soli d'argento, flutti madreperlacei,
Cieli ardenti! Incagliavo in fondo a golfi bruni
Dove immensi serpenti mangiati dalle cimici
Cadon, da piante torte, con oscuri profumi!

Ai bimbi avrei voluto mostrare le dorate
Dell'onda cupa e azzurra, o quei pesci canori.
- Schiune di fiori, mentre salpavo, m'han cullato,
E talvolta ineffabili venti m'han dato l'ali.

Martire affaticato dai poli e dalle zone,
Il mare che piangendo mi addolciva il rullio
Faceva salir fiori d'ombra, gialle ventose,
Ed io restavo, simile a una donna in ginocchio,

Quasi isola, scuotendo sui miei bordi i litigi
E lo sterco di uccelli dagli occhi bioni, e urlanti.
Vogavo ed attraverso i miei legami fragili
Gli affogati a ritroso scendevano a dormire!

Io, battello perduto nei crini delle cale,
Spinto dall'uragano nell'etra senza uccelli,
Né i velieri anseatici, né i Monitori avrebbero
Ripescato il mio scafo ubriacato d'acqua;

Libero, fumigante, di brume viole carico,
Io che foravo il cielo rossastro come un muro
Che porti, leccornie per i buoni poeti,
Dei licheni di sole e dei mocci d'azzurro;

Io che andavo chiazzato dalle lunule elettriche,
Folle trave, scortato dagli ippocampi neri,
Quando il luglio faceva crollare a scudisciate
I cieli ultramarini dai vortici infuocati;

Io che tremavo udendo gemere a cento leghe
I Behemot in foia e i densi Maèlstrom,
Filando eternamente sulle acque azzurre e immobili,
Io rimpiango l'Europa dai parapetti antichi!

Ho visto gli arcipelaghi siderei e delle isole
Dai cieli deliranti aperti al vogatore:
- È in queste notti immense che tu dormi e t'esili
Stuolo d'uccelli d'oro, o Vigore futuro?

Ma basta, ho pianto troppo! Le Albe sono strazianti.
Ogni luna mi è atroce ed ogni sole amaro:
L'acre amore mi gonfia di stordenti torpori.
Oh, la mia chiglia scoppi! Ch'io vada in fondo al mare!

Se desidero un'acqua d'Europa, è la pozzanghera
Nera e gelida, quando, nell'ora del crepuscolo,
Un bimbo malinconico abbandona, in ginocchio,
Un battello leggero come farfalla a maggio.

Non posso più, bagnato da quei languori, onde,
Filare nella scia di chi porta cotone,
Né fendere l'orgoglio dei pavesi e dei labari,
Né vogar sotto gli occhi orrendi dei pontoni.
da Poesie, 1871

Jean Nicolas Arthur Rimbaud, Charleville-Mézières, 1854-Marsiglia,1891