Opere di Käthe Kollwitz
(Königsberg, 1867- Moritzburg, 1945)
È sempre l’infanzia a strapparci dal
nostro torpore, a dirci che la nostra negligenza unita all’indifferenza sta massacrando le nostre coscienze e sta
spezzando i nostri cuori.
Cosa chiede quel bimbo senza vita,
solo, abbandonato sulla spiaggia al
sonno della morte? Forse una ninna nanna ? Forse il sorriso della mamma o il
calore di un abbraccio? Forse una
speranza di vita per tanti altri bambini vittime di guerre, di violenze e di
odio?.
Troppi sono i corpi finiti in
fondo al mare, persone fuggite dalla propria terra per una
possibilità di vita, per una speranza per i propri figli.
Troppi corpi accusano l’intera
umanità di follia e di cecità.
E se fossimo noi costretti a
bussare senza che nessun uscio si aprisse a una possibilità di vita?.
Immagini strazianti ci accusano
ma ciò che colpisce parimenti è che non
si vede ancora nessuna seria soluzione
al problema.
Non commuoviamoci soltanto di
fronte al bambino trovato morto ma fermiamoci per pensare e riflettere in un
profondo -mea culpa- perché si ponga fine a tale scempio.
Il mare si veste a lutto in un
mormorio doloroso come un pianto antico di cui ci credevamo immuni.
Il mare perde i suoi magnifici
colori e non dona refrigerio, pregno di presenze che ci gridano la nostra
disumanità.
Il pianto si infittisce tra le
onde a scaglie e appaiono volti di mamme lacere, di bimbi che chiedono solo una
scodella di latte. Le mamme stringono a se i figli in un dolore disperato, in
una ricerca di aiuto negata.
I tanti corpi disseminati mostrano la nostra infamia. Non si ode più il lento e dolce mormorio del mare mutato in
agonia.
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