lunedì 5 luglio 2021

I LUOGHI DI DANTE: IL PALAZZO DEL CAPITANO DEL POPOLO O BARGELLO

 Bottega di Giotto Il profilo di Dante

Costruito in pietra forte, il Palazzo del Capitano del Popolo si erge simile a una fortezza, ed è rifinito, come l’alta torre a cui si appoggia, con merlatura guelfa. La costruzione, altissima e austera, risale al 1255, come riporta un’epigrafe posta sui muri esterni. Quando nel 1250 venne istituita la carica del Capitano del Popolo, si pensò a una sede che fosse sicura dalle sommosse sia dei magnati, la classe dei mercanti più nobili, che dei popolani. Ma dove collocare l’edificio? La scelta cadde su un’area centrale, che fosse vicina alle zone di mercato e ben visibile dal polo religioso, costituito dal Battistero e dalla Cattedrale di Santa Reparata. Per tale esigenza furono acquistate molte case-torri, esattamente 11 e molti terreni. Si iniziò così la costruzione dell’edificio che fu appoggiato a una grande torre, detta la “Volognana”, dal nome di Geri da Volognano, uno dei primi carcerati che vi furono rinchiusi. La Torre apparteneva ai Boscoli, una famiglia ghibellina che, esiliata nel 1268, fu privata dei suoi beni, secondo il costume del tempo. La torre, diventata parte di un edificio pubblico, ha conservato fino a oggi la sua antica altezza di 57 metri. In cima alla torre è collocata una banderuola con il leone fiorentino e sulla sua sommità si trova la campana, detta dai fiorentini, la “Montanina”, sottratta dal castello di Montale, nel pistoiese. Essa suonava quando si dovevano chiamare a raccolta i cittadini in caso di guerra, di assedio, o in caso di lotte tra le fazioni politiche dei Guelfi e dei Ghibellini. La “Montanina” è davvero parte integrante della storia di Firenze. Quando il Bargello era il luogo dove si amministrava la giustizia, accompagnava, col suo suono, l’ultimo viaggio dei condannati a morte. L’11 agosto del 1944 i suoi rintocchi chiamarono i fiorentini alla rivolta contro l’occupante nazista; fu suonata per l’alluvione nel 1966, e pochi anni fa ha suonato per festeggiare il terzo millennio. Molti fiorentini, ancora oggi, la confondono con la “Martinella” di Palazzo Vecchio che invece accompagnava le bandiere e gli stendardi in battaglia, e chiamava i cittadini a prendere le armi. Il Bargello si affaccia su via Ghibellina. Nel 1260, narra il Malispini (1220-1290 ca.) in Storia fiorentina: Partiti i Guelfi, feciono podestà di Firenze Guido Novello, che tenea ragione nel palazzo di Sant’Apollinare, e fece fare la porta Ghibellina… nel cerchio delle mura del 1175 …e aprire quella via di fuori, a ciò che per quella via che rispondesse al palagio, potesse avere l’entrata e l’escita verso i suoi castelli del Casentino. Fu, ed è, la via Ghibellina che si percorre ancora oggi. Questa strada dunque, che anticamente terminava con la cerchia delle mura del XII secolo, all’altezza dell’odierno Teatro Verdi, si chiamava via del Palagio del Podestà. Nel 1261, Guido Novello la chiamò “Porta Ghibellina” in onore della vittoria riportata dai ghibellini nella battaglia di Montaperti, combattuta nel 1260, in cui i ghibellini di Siena e gli esuli di Firenze, tra cui Farinata degli Uberti, sconfissero i guelfi fiorentini. Dirà Dante:

Lo strazio e 'l grande scempio
che fece l'Arbia colorata in rosso,
tal orazion fa far nel nostro tempio.
(Inferno, Canto X, 85)

In seguito tale denominazione passò alla strada e, nel 1862, venne estesa a tutta la sua lunghezza. La strada, in passato, era percorsa per un lungo tratto dai condannati a morte che, dal Bargello venivano accompagnati al Carcere delle Stinche, che sorgeva dove si trova attualmente il Teatro Verdi e che, passando poi per via San Giuseppe, giungevano alla “Porta alla Giustizia”, presso la Torre della Zecca, dove li aspettava la forca per le esecuzioni. Per dare conforto ai condannati furono eretti lungo la strada una serie di tabernacoli come quello posto all’angolo tra via Ghibellina e via Isola delle Stinche. Il tabernacolo, opera di Giovanni da San Giovanni (1592-1636), raffigura il senatore Serristori, committente dell’opera che, alla presenza di Gesù Cristo e di due magistrati, paga il riscatto per un carcerato, adempiendo così a una delle sette opere di misericordia. Il termine Stinche, tra le molte storie che si raccontano, è riferibile a un episodio del XVI secolo, una rivolta scoppiata al Castello delle Stinche, in località Panzano, nella vicina zona del Chianti, proprietà dei Cavalcanti. Tutti gli abitanti del Castello furono arrestati e portati nelle prigioni che si chiamarono Stinche, probabilmente dal loro nome. Il nucleo originale del Bargello, risalente al 1255 e costruito, secondo il Vasari (1511-1574), su disegno di un certo Lapo, padre di Arnolfo di Cambio, nacque per volontà del governo del Primo Popolo, per essere destinato a residenza del Capitano del Popolo. Dal 1271, il Palazzo fu sede del Podestà, un Magistrato forestiero, incaricato dal Governo a reggere la città. Nel XVI secolo divenne sede del Consiglio di Giustizia per le udienze dei Giudici della Ruota (cosiddetta, perché i giudici erano chiamati a rotazione tra i laureati in legge), una magistratura deputata alla risoluzione delle cause civili voluta da Pier Soderini e rimasta in vigore fino al 1841, finché, subentrato il Capitano di Piazza, detto il “Bargello” (1574), ospitò le carceri cittadine. L’edificio, mostra nella struttura, la sua appartenenza al tipo dei castelli di difesa con mura di macigno e marcapiani di pietra serena e presenta la tipologia delle torri come testimoniano le strutture a sbalzo sulle pareti. Il Palazzo è nell’insieme uno scrigno di memoria storico-artistica e architettonica.  Nel cortile, edificato nel tredicesimo secolo, sono esposti lungo il maestoso muro gli stemmi dei Podestà fiorentini e tra questi: lo stemma di Jacopo Boscoli, sormontato da un cimiero con un grifo nascente, affiancato dalle lettere iniziali del suo nome, lo stemma di Ilario Sanguinacci, sormontato da un cimiero con due ali e una testa e collo di drago, affiancato dalle lettere iniziali del suo nome e dalle insegne dei Sestieri di Firenze: San Pancrazio, Oltrarno, San Piero Scheraggio, Borgo Santi Apostoli, Porta del Duomo, Battistero di San Giovanni, Porta San Piero. Il Bargello, abbandonato per molto tempo, ha visto cambiare la sua struttura originaria e la sua funzione. Quando nel 1786, il Granduca Pietro Leopoldo abolì la pena di morte, gli strumenti di tortura furono bruciati proprio nel cortile del Bargello dove, in sostituzione del patibolo, fu costruito il pozzo che oggi ammiriamo. Le prigioni rimasero in uso fino al 1857, quando furono trasferite nell’ex convento delle Murate. A partire da questa data, cominciò il restauro dell’edificio, compiuto dall’architetto Francesco Mazzei. La loggia fu restaurata e il cortile modificato; fu inoltre previsto che il cortile documentasse gli stemmi dei quattro quartieri della città e delle sedici compagnie armate del popolo e che si affiancassero agli stemmi pittorici stemmi di pietra, provenienti da vari monumenti toscani.


 Lamina dell'elmo di Agilulfo

 Il Museo del Bargello

A partire dal 1859 il palazzo è diventato Museo Nazionale, tra i più importanti del mondo e raccoglie opere di arte varia divise in più sale, disposte su più piani. Le opere e i manufatti in esse conservati, testimoniano l’arte che ha segnato la vita di Firenze, specialmente nel Rinascimento, e la cultura di altri popoli. L’elevato numero delle opere esposte, ci obbliga a una scelta, e solo una visita diretta  può consentire una conoscenza accurata di ogni elemento. Al piano terreno la Sala di Michelangelo ospita opere di grande pregio e tra queste: il Bacco ebbro, il Bruto, il Tondo Pitti e il David-Apollo, di Michelangelo (1475-1564). Il doppio nome di David-Apollo è dovuto a due diverse teorie, di cui una del Vasari e l’altra di un inventore mediceo, incertezza dovuta forse al non finito dell’opera; il Narciso, il Ganimede, il Perseo, il Busto di Cosimo I di Benvenuto Cellini (1500-1571); l’Onore che vince l’inganno, ispirato dalla vittoria di Firenze su Pisa, di Vincenzo Danti (1530-1576) e il Mercurio alato o volante del Giambologna (1529-1608). L’elegante scalone, conduce all’ampio verone, posto al primo piano, la cui loggia è decorata con affreschi in stile medioevale,  di Gaetano Bianchi (1819-1892). Tra i tanti elementi, si ammirano: un pavone, un gufo e un tacchino, provenienti dalla grotta della Villa Medicea di Castello e  che rivelano la tendenza del Giambologna al naturalismo; il tacchino è particolarmente interessante, perché mostra al suo interno l’armatura. L’antico Salone del Consiglio Generale che, all’epoca del Bargello, era utilizzato come un moderno tribunale, ospita alcune opere di Donatello (1386-1466) e tra queste: il David in marmo, scolpito dall’artista, poco più che ventenne,  simbolo di libertà della Repubblica fiorentina, il David in bronzo, opera della piena maturità dell’artista, simbolo del trionfo della ragione sull’irrazionalità e della libertà repubblicana dopo la seconda cacciata dei Medici (colpisce la testa di Golia, derivata forse da un cammeo delle raccolte medicee), il S. Giorgio,  commissionato dall’arte dei Corazzai e degli Spadai per una nicchia di Orsanmichele. Altre opere decorano la sala, come: il bassorilievo marmoreo della Madonna Panciatichi di Desiderio da Settignano (1430-1464) e la dolce Madonna della mela, in terracotta invetriata di Luca della Robbia (1400-1481). Adiacente alla torre “Volognana”, si trova la Sala islamica, dove sono esposti: tappeti, stoffe, gioielli e oggetti metallici che ci raccontano la preziosa e raffinata manifattura dei popoli di appartenenza. Interessante è la sala che ospita la prestigiosa “Collezione Carrand”. Costruita durante i lavori di ampliamento dell’edificio, fra il 1260 e il 1280, essa fu denominata fino al 1888 “Sala del Duca d'Atene”, cui appartiene lo stemma degli affreschi. Da questa data, nella sala è esposta una parte dei tremila oggetti donati dall’antiquario francese Louis Carrand: posate, boccali, fibbie, oggetti indiani, vetri dorati paleocristiani, cristalli, smalti spagnoli, dipinti, orologi, oreficerie, una sfera armillare del Cinquecento, cammei, amuleti, oggetti franchi e longobardi e fra tutti la cosiddetta Placca d’elmo di Agilulfo, il pezzo più famoso e rappresentativo dell’oreficeria longobarda, in bronzo dorato, esposto insieme a preziosi reperti di oreficeria bizantina. Accanto alla Sala islamica, la Cappella di Santa Maria Maddalena con annessa la Sacrestia, ricorda il luogo dove i condannati a morte trascorrevano le loro ultime ore, assistiti dalla Compagnia dei Neri, composta da cittadini che si dedicavano a questo ufficio, alternandosi nelle preghiere; non a caso si tratta del palazzo dove in nome della giustizia si praticava la tortura e si condannava a morte. Nella cappella, gli affreschi, risalenti al 1340 ca., opera di artisti della bottega di Giotto, presentano le storie di S. Maria Maddalena, del Battista e di S. Maria Egiziaca, una monaca, nata ad Alessandria d’Egitto nel 344 ca. e morta nel 421 ca., che da prostituta divenne santa, venerata sia dalla Chiesa cattolica che da quella ortodossa e copta. La sua storia si veste di leggenda. Fuggita dalla propria casa all’età di dodici anni, si guadagnò da vivere, facendo la prostituta. Pentitasi, rinunciò alla vita dissoluta, si immerse nelle acque del Giordano per purificarsi e ricevuta la comunione eucaristica, iniziò un cammino di penitenza fatta di privazioni. Un giorno la incontrò Zosimo, di un monastero palestinese e a lui Maria raccontò le vicissitudini della sua vita. Zosimo si allontanò con la promessa che sarebbe tornato l’anno dopo; ritornò, ma la trovò morta. C’è chi vuole la sua tomba scavata dagli artigli di un leone. È patrona delle prostitute pentite.

Tra gli affreschi che decorano la sala, c’è anche un profilo di Dante,  tradizionalmente attribuito a Giotto (o di scuola giottesca).

La Sala degli Avori raccoglie circa trecento pezzi, appartenenti a un periodo che va dal V al XVII secolo: crocifissi, manici di posate e di pugnali, pettini, specchi, scacchi, cofanetti, statuine, e due interessanti mosaici portatili. La Sala Bruzzichelli è allestita con mobili cinquecenteschi, donati nel 1983 dall’antiquario omonimo. La Sala delle Maioliche ospita una straordinaria produzione di maioliche di Urbino, Siena, Orvieto e Firenze.  Il secondo piano raccoglie le meravigliose terrecotte di Giovanni della Robbia (1469-1529) e l’Armeria, con pezzi delle collezioni medicee, urbinate, Carrand e Ressman, tra cui: una sella da torneo del Quattrocento in avorio, una sella alla turca in argento con turchesi e parti di un’armatura di Guidubaldo della Rovere, duca d’Urbino. Seguono la Sala di Andrea della Robbia (1389-1482) e la Sala dei Bronzetti che conserva una delle maggiori collezioni di questo tipo, esistente in Italia: oggetti, come calamai e lanterne,  opere uniche o copie di sculture antiche e moderne. Ma, meraviglia tra le meraviglie, è la Sala della scultura del secondo Quattrocento, detta del Verrocchio (1437-1488), dove si possono ammirare preziose opere dell’artista: il David bronzeo, la raffinata e delicata Dama col Mazzolino di primule, in marmo, il Busto di Piero di Lorenzo dei Medici in terracotta; e inoltre: il Busto di giovane guerriero con la corazza decorata, di Antonio del Pollaiolo (1431-1498); il Busto di Battista Sforza, di Francesco Laurana (1430-1502), numerose sculture e bassorilievi di Mino da Fiesole (1429-1484) e di Antonio Rossellino (1427-1479). Nella Sala della Scultura barocca e del Medagliere è collocata una raccolta di più di mille esemplari di monete e medaglie, certamente la più importante al mondo per consistenza e qualità degli esemplari, che riproducono una galleria di personaggi e immagini di Firenze attraverso i secoli, un percorso di storia sulla vita della città e dei suoi protagonisti. Il museo è nell’insieme un libro aperto sul mondo, dato che,  gli  arredi e i manufatti che espone, grazie ai ritrovamenti, alle committenze, ai collezionisti, alle donazioni e alle raccolte, ci consentono di conoscere la storia di Firenze e  di altri popoli. Quella del Bargello è la storia di uno dei più antichi palazzi pubblici fiorentini. La sua trasformazione da Palazzo del Capitano del Popolo, a prigione, all’attuale Museo Nazionale, risulta il frutto di una lunga e travagliata genesi. Il Bargello è divenuto simbolo di libertà da quando furono bruciati al suo interno gli strumenti di tortura, atto che sancì l’abrogazione della pena di morte. Nel cortile della Dogana di Palazzo Vecchio, è stata posta una lapide marmorea commemorativa che riproduce un testo redatto subito dopo la promulgazione della legge, avvenuta nel dicembre del 1786 che faceva della Toscana, il primo Stato al mondo ad aver abolito la pena di morte. L’epigrafe, composta dal georgofilo Giuseppe Pelli Bencivenni, su richiesta di Francesco Seratti che aveva curato la stesura finale della Riforma, così recita: Per memoria della Toscana felicità quando Pietro Leopoldo con legge de’ 30 novembre 1786 la pena di morte, l’infamia, la tortura, ogni delitto di lesa maestà colla confiscazione delle sostanze cancellò per primo in Europa dalla vecchia legislazione. Il Comune di Firenze ha voluto che l’epigrafe fosse posta nel cortile della Dogana di Palazzo della Signoria, in occasione della prima ricorrenza della festa commemorativa istituita dalla Regione toscana il 30 novembre 2000; ma alla fine del Settecento si era pensato di porre la lapide all’esterno del Bargello, nel punto in cui avveniva il supplizio della fune, per indicare la fine di quel crudele sistema penale. La legge di Pietro Leopoldo chiudeva un periodo di barbarie e iniziava un nuova storia dell’umanità. La riforma che portò il Granduca a rivedere il rapporto tra delitto e pena trovava fondamento in parte nel Codice Giuseppino in parte nelle concezioni filosofiche dell'Illuminismo, sua fonte principale, ma si ispirava essenzialmente al trattato politico di Cesare Beccaria (1738-1794) Dei delitti e delle pene, che l’autore ebbe la possibilità di pubblicare per la prima volta, a Livorno, nel 1764. Dal 2000, il Consiglio Regionale della Toscana ha approvato una legge per celebrare, il 30 novembre, la Festa della Regione Toscana, una festa che rende omaggio a tutti coloro che credono nei valori della pace, della giustizia e della libertà; una festa per educare alla conoscenza storica della propria città; per riproporre un momento tra i più importanti della storia moderna e per aggregare i toscani attorno a una data di grande significato civile e ricordare loro che i loro antenati sono stati i primi ad aver abolito la pena di morte. Quello di Pietro Leopoldo è uno degli atti fondanti di questa terra e dello Stato cui appartiene (Mario Luzi). Una festa e una targa dunque per ricordare l’origine di quel lungo cammino che ha visto la Toscana e i suoi governanti del passato svolgere un ruolo da protagonisti per sancire i diritti dell’uomo; un cammino che continua come “La Carta dei diritti dell’Unione Europea” del 2000 che ribadisce il diritto di ogni uomo a non essere condannato a morte da altri uomini. Il Bargello lascia nel visitatore stupore e suggestione. Quanti personaggi hanno lasciato le loro orme lungo lo scalone “goticheggiante”; quante vicissitudini in quel luogo, un tempo sinistro, perché luogo di tortura e di morte; quanti condannati hanno patito il supplizio nelle sue segrete. Gli stemmi attaccati lungo il maestoso muro, raccontano storie di famiglie importanti, di personaggi e di avvenimenti. Ma il pozzo, posto al centro del cortile, dove una volta  si ergeva il patibolo,  ci dice che quel tempo è ormai superato e un percorso ricco di monumenti ci accompagna verso l’uscita. Le finestre, all’esterno, richiamano un uso antico molto macabro, quello di appendervi i condannati, dopo l’esecuzione, a monito del popolo. Siamo in Piazza San Firenze. La Piazza prende il nome dal Complesso di San Filippo Neri, detto anche di San Firenze da una storpiatura del nome di un edificio preesistente dedicato a San Fiorenzo. Seguendo via dei Gondi, cosiddetta dal palazzo che le dà il nome e che si erge lateralmente ad essa, entriamo in Piazza della Signoria, cuore politico della Firenze medievale.

Dal mio libro Firenze nel cuore. Visitare la Firenze medievale per scoprire la Firenze di oggi. l centro storico. Morgana Edizioni.

venerdì 28 maggio 2021

I LUOGHI DI DANTE: IL BATTISTERO

 

Il Battistero è uno dei luoghi più affascinanti di Firenze. Dante lo definì il mio bel San Giovanni e vi fu battezzato il Sabato Santo del 26 marzo 1266.

Edificato nell’XI secolo, sui resti di costruzioni  romane tra cui, una ricca domus del I secolo d. C, il Battistero, capolavoro dell’architettura romanica a Firenze, ritenuto in origine un tempio dedicato al dio Marte, fu consacrato a San Giovanni Battista, patrono della città. La data di fondazione è assai incerta, si pensa al IV-V secolo d. C. con rimaneggiamenti nel VII secolo, durante la dominazione longobarda, forse in seguito alla conversione al cristianesimo della regina Teodolinda. La sua ristrutturazione dei sec. XI e XII, che riguardò l’attuale forma della costruzione, conservò i caratteri della misura, della geometria e del ricco rivestimento marmoreo tipici dell’antica cultura romana. Dal 1059 al 1128, il Battistero fu cattedrale di Firenze, il tempio della Repubblica Fiorentina, dove, oltre alle funzioni religiose, si svolgevano importanti cerimonie civili. Qui avevano luogo le benedizioni per le truppe che partivano per le varie guerre e i festeggiamenti per coloro che tornavano vincitori; alle pareti del tempio venivano appese le bandiere catturate al nemico e i diversi trofei di guerra. Lo spazio, che occupa attualmente l’edificio, testimonia l’evoluzione che caratterizzò la Firenze medievale. All’inizio infatti, il Battistero era collocato all’esterno della cerchia delle mura (e questo ci fa capire le dimensioni minime del primo nucleo della città), ma fu poi compreso, insieme al Duomo, nella “quarta cerchia” delle mura, fatta costruire da Matilde di Canossa. In origine era circondato da altri edifici, che vennero però abbattuti nel XIV e XV secolo, per creare l’attuale piazza San Giovanni.

 L’architettura esterna 

Il Battistero è un monumento all’arte e le porte in bronzo, che lo adornano, ne sono una chiara testimonianza. I temi che esse rappresentano, sono per il popolo una lettura della storia dell’umanità e della sua redenzione. La Porta più antica è quella che guarda verso la Loggia del Bigallo, modellata da Andrea Pisano, dal 1330 al 1336, su commissione dell’Arte dei Mercatanti o di Calimala, sotto la cui tutela era il Battistero. È divisa in 28 formelle, di cui 20 raffigurano la vita di San Giovanni Battista e le rimanenti le Virtù Teologali e le Virtù Cardinali. Nelle formelle quadrate, c’è l’uso del quadrilobo, cornici tipiche dell’arte gotica, che modernizzavano la tipologia dei portali romanici. Da notare nelle colonne, scolpiti in bassorilievo, due rettangoli che rappresentano due misure di lunghezza in uso nel Medioevo: il piede longobardo (detto piede di Liutprando, usato fino al XIII secolo) e il braccio fiorentino. In Europa, prima dell'adozione del sistema metrico, erano utilizzate, per determinare le distanze, alcune misure basate sul confronto tra parti del corpo umano. Anche se diverse da paese a paese, corrispondevano, in genere, alla lunghezza di un dito (pollice), di un piede o dell'avambraccio. Le braccia fiorentine equivalevano a circa 58 centimetri. Fra le altre misure lineari della Firenze antica incontriamo il soldo (corrispondente a mezzo braccio), il denaro (la ventesima parte di un soldo) e la canna (multiplo del braccio). Per evitare frodi o differenze nella misurazione, a Firenze la lunghezza ufficiale del braccio a panno era scolpita nella pietra, visibile ancora oggi, in via de’ Cerchi.La Porta nord detta anche Porta alla Croce, è la prima delle due realizzate da Lorenzo Ghiberti (1378-1455). Nel 1401, fu indetto  un concorso per scegliere l’artista che l’avrebbe poi eseguita e per l’occasione, i mercanti-committenti fissarono anche le regole: il tempo d’esecuzione non doveva superare l’arco di un anno, il tema della formella bronzea per concorrere, doveva rappresentare il Sacrificio di Isacco, la cornice doveva essere mistilinea (un compasso gotico con 4 lobi e angoli acuti sul modello della prima porta),  il materiale doveva essere utilizzato con risparmio, a dimostrazione di quanto fosse forte allora l’ingerenza dei committenti. Molti artisti parteciparono al concorso, e tra questi Filippo Brunelleschi. La commissione formata da 34 giudici (di cui 30 periti), orafi, pittori, scultori e 4 consoli di Calimala, valutò i lavori dei 7 concorrenti e scelse la formella del Ghiberti, anche perché al momento, il lavoro di Brunelleschi non fu capito per l’utilizzo di elementi innovativi, quali la prospettiva. In seguito, le formelle dei due artisti sono state esposte l’una accanto all’altra al Museo del Bargello.

Il lavoro impegnò tutta la bottega del Ghiberti composta da giovani artisti tra i quali Donatello e Paolo Uccello (1397-1475). Ghiberti ripeté lo schema della prima porta, usando 28 riquadri, dove svolse il tema del Nuovo Testamento. I venti riquadri superiori rappresentano Storie evangeliche dall’Annunciazione alla Pentecoste, gli altri Evangelisti e Dottori della Chiesa. Gli artisti usavano spesso inserire l’autoritratto nelle proprie opere e anche Ghiberti ci ha lasciato il proprio, riconoscibile per il  vistoso copricapo, considerato il primo ritratto realistico del Quattrocento. Visto il notevole risultato della porta Nord, l’Arte dei Mercanti affidò allo stesso Ghiberti, e questa volta senza concorso, la realizzazione della terza e ultima porta, Porta est. L’artista impiegò 27 anni (1425-57) coadiuvato da altri artisti, e tra questi: il figlio Vittorio, Michelozzo (1396-1472) e Benozzo Gozzoli (1421-1497). Ghiberti rappresentò in dieci pannelli di forma rettangolare, 37 temi tratti dall'Antico Testamento, proseguendo il ciclo decorativo iniziato nelle altre porte, predisposto dal grande umanista Leonardo Bruni (1370-1444).

La Porta, capolavoro del Ghiberti, colpisce per le ampie composizioni, ricche di figure, di architetture e di paesaggi tipici del Rinascimento.  Gioiello di bellezza e di preziosità, fu definita da Michelangelo “Porta del Paradiso” e i committenti decisero di istallarla di fronte al Duomo al posto dell’esistente porta orientale. Il tema rappresentato, è quello della Salvezza fondata sulla tradizione patristica latina e greca. Iniziando dall’alto in basso e da sinistra a destra, le scene principali di ciascun pannello sono: la Creazione di Adamo ed Eva, il Peccato originale, Adamo ed Eva cacciati dal Paradiso terrestre; Caino e Abele lavorano nei campi, uccisione di Abele; storie di Noè; apparizione degli Angeli ad Abramo, sacrificio d’Isacco; storie di Esaù e Giacobbe; Giuseppe venduto ai mercanti, la tazza d’oro ritrovata nel sacco di Beniamino, Giuseppe si fa riconoscere dai fratelli; Mosè riceve le tavole della legge sul monte Sinai; il popolo d’Israele attraversa il Giordano, presa di Gerico, Battaglia contro i Filistei; David vince il gigante Golia; Salomone riceve nel gran tempio la regina di Saba. In questa formella, lo sposalizio della regina di Saba con il Re Salomone è una chiara allusione al tentativo fiorentino del 1439 di riconciliare le Chiese d’Oriente e d’Occidente. La formella con le storie di Giuseppe si può  interpretare  come un’ allusione al ritorno di Cosimo I dall’esilio,  in cui egli è paragonato a Giuseppe che, tradito dai fratelli, diventa poi il loro salvatore.

 

 

La porta del Paradiso, è completata da 28 nicchie con Profeti e Sibille e da 24 tondi con ritratti di personaggi celebri. Nella striscia centrale a sinistra, in basso,  ritorna, con la testina calva, l’autoritratto del Ghiberti nella sua maturità. In uno dei sodi orizzontali si legge: Laurentii Cionis de Ghibertis opus mira Arte fabricatum cioè: Fatto con l’arte ammirabile di Lorenzo Cioni dei Ghiberti. Ai lati della porta, si trovano antiche colonne in porfido, donate dai Pisani ai Fiorentini nel 1117 per l’aiuto ricevuto durante la guerra delle Baleari. Scrive il  Secchioni: Secondo la leggenda, le due colonne possedevano una virtù particolare, una forza misteriosa trasmessa dall’arte magica degli Arabi. Chi avendo subito un torto, si fosse posto “dietro” una delle colonne, avrebbe visto materializzarsi nel marmo l’immagine del colpevole. I pisani non vollero concedere agli amici-nemici una cosa così pregiata e “affocarono” i due fusti, così che il fuoco purificatore avrebbe tolto ogni possibilità di magia. Le due colonne avvolte in ricchi broccati furono prese dai fiorentini che si lasciarono ingannare da questa parvenza di amicizia: questo dette origine al soprannome di “fiorentini ciechi”. Comunque i fiorentini risaputo il fatto ci andarono lo stesso “coi piedi di piombo” e per evitare ogni utilizzo improprio, posero i due fusti addossati al muro della Porta del Paradiso, in maniera tale che nessuno potesse mettendosi dietro di esse svelare volti “sospetti”. La porta che noi oggi ammiriamo è una copia, l’originale si trova nel Museo dell’Opera del Duomo.

 
 

L’architettura interna

Il Battistero ha pianta ottagonale, con un diametro di 25,60 m, quasi la metà di quello della cupola del Duomo (non a caso si dice che la cupola di Brunelleschi potrebbe contenere l’intero Battistero).

L’ottagono rappresenta l’ottavo giorno, quello in cui Cristo risorge e vive in eterno, ed è associato, fin dall’epoca paleocristiana, al rito del battesimo. La necessità, a quel tempo, di un edificio di vaste dimensioni, si spiega con l’esigenza di accogliere la folla che doveva assistere al rito. I battesimi, che si svolgevano due volte l’anno fino al 1450 circa, il Sabato Santo e il sabato prima della Pentecoste, servivano anche come censimento per i nati in Firenze per cui si poneva in un bacile una fava nera per ogni nato maschio, e una fava bianca per ogni femmina. Le fave erano presenti presso i popoli antichi sia per i riti funebri che come  segni di buon auspicio. Erano utilizzate nei riti propiziatori dagli antichi egizi, dagli antichi greci e dal mondo romanico. La fava era considerata una pianta funesta per il suo fiore bianco maculato di nero, colore raro nel mondo vegetale. La macchia nera lascia interpretare la forma della “tau” greca, prima lettera della parola tanatos che significa morte. Il consumo delle fave, sia per tradizioni che ritualità devozionali è stato tramandato sino ai giorni nostri con feste e riti.

Nell’antichità, le opere d’arte inserite nei luoghi sacri, fungevano  per i credenti come un libro aperto, per istruire su ciò che era male e ciò che era bene, tale è la funzione del bellissimo mosaico, realizzato su fondo dorato, posto all’interno della cupola del Battistero, la cui costruzione risale alla seconda metà del XIII secolo. Il mosaico è una tecnica pittorica che consiste nell’accostare, fissandole alla malta del muro, migliaia di piccole tessere colorate. Nella cupola del Battistero, esse disegnano una gigantesca figura di Cristo Giudicante, di tipo ancora fortemente bizantino. Il tema del Giudizio universale fu scelto per indicare che la giustizia divina è inesorabile ; lo stesso tema  ritorna con la tecnica dell’affresco( metodo di pittura murale “a fresco”, cioè su uno strato fresco di intonaco, con colori stemperati in acqua), nella cupola del Brunelleschi. Ai piedi del Cristo è rappresentata la resurrezione dei morti, alla sua destra i giusti sono accolti in cielo dai patriarchi biblici, alla sua sinistra è collocato l’Inferno con i diavoli. Sono inoltre raffigurate: storie della Genesi, di Giuseppe, di Maria, di Cristo e di San Giovanni Battista. Probabilmente, per la realizzazione di questo mosaico furono impiegate maestranze veneziane, coadiuvate da importanti artisti fiorentini che fornirono i cartoni, come Coppo di Marcovaldo (ca. 1225 – ca. 1276), Meliore (seconda metà del XIII secolo), il Maestro della Maddalena (1250-1290ca.) e Cimabue (1240-1302).

La costruzione dell’edificio si protrasse per lungo tempo e molti furono gli artisti che vi lavorarono. Nel 1128, l’edificio diventò il Battistero cittadino e intorno alla metà dello stesso secolo venne eseguito il rivestimento esterno in marmo. Il pavimento, realizzato nel 1209, è decorato con marmi a tarsia che riproducono motivi di tappeti orientali, e orientaleggianti sono anche parecchie delle figure umane o animali raffigurate sul pavimento stesso. Si dice che il bellissimo pavimento a mosaico, formato da tasselli di marmo verdi, bianchi, rossi e neri, abbia ispirato per secoli l’arte dei setaioli di Firenze. Le Arti ebbero un ruolo fondamentale nella costruzione dei monumenti e hanno lasciato su di essi il proprio simbolo; infatti anche all’interno del Battistero, il coperchio del sarcofago di Guccio de’ Medici,  gonfaloniere di Firenze nel 1299, è decorato con l’Arme Medicea e col simbolo dell’Arte della Lana, visibile anche all’esterno su di una finestra. La “scarsella”, abside del Battistero, a pianta rettangolare, venne realizzata nel 1202 e verso il 1220, furono realizzati i mosaici. L’interno del Battistero, che nella struttura ricorda gli edifici classici e in particolare il Pantheon, ha subito varie modifiche. Nel 1576, in occasione del battesimo dell’erede maschio del Granduca Francesco I de’ Medici, Bernardo Buontalenti ricostruì il fonte battesimale, distruggendo i battezzatoi medievali ricordati da Dante:

Non mi parean men ampi né maggiori 

che que’ che son nel mio bel San Giovanni,

fatti per loco d’i battezzatori;

l’un de li quali, ancor non è molt’anni,

rupp’io per un che dentro v’annegava.

(Inferno, XIX, 16-20)

 Pare che il giovane, a cui Dante si riferisce, si chiamasse Antonio di Baldinaccio de’ Cavicciuli e che vi fosse caduto mentre stava giocando con degli amici. Il Battistero è decorato da 18 colonne: 12 di granito orientale, 5 di cipollino orientale; l’unica, scanalata in marmo bianco, pare sorreggesse la statua di Marte, primo protettore di Firenze, al Ponte Vecchio: È comunque curioso scoprire che, secondo una leggenda, la colonna scannellata di marmo bianco che si trova all’interno del Battistero all’altezza della Porta del Paradiso, sia quella utilizzata ai tempi di Carlo Magno per sostenere la statua di Marte ovvero Teodorico (E. L. Pecchioni).  

 
  

 

Nel Medioevo i luoghi della fede sono stati luoghi anche di testimonianze scientifiche e soprattutto astronomiche. La Cattedrale di Santa Maria del Fiore, il Campanile di Giotto e il Battistero di San Giovanni ne offrono un esempio. Sul pavimento del Battistero, vicino alla Porta d’Oro, è visibile una rara testimonianza del sistema cosmico tolemaico per indicare il solstizio d’estate. Già intorno all’anno 1000, esisteva nel Battistero un orologio solare: attraverso un foro praticato nella cupola, i raggi solari colpivano nel corso dell’anno i segni dello zodiaco su una lastra di marmo collocata presso la porta nord. Sulla lastra è riportato il verso palindromo  (dal greco πάλιν, indietro e δρóμος, corsa) col significato “che corre all'indietro”, una sequenza di caratteri che, letta a rovescio, rimane identica) en giro torte sol ciclos et rotor igne che vuol significare: io sole col fuoco faccio girare tortamente i cerchi e giro anch’io. La lastra, costruita da Strozzo Strozzi (950ca.-1012) nell’XI secolo con il sole al centro dei dodici segni zodiacali, fu spostata nel XIII secolo, in seguito al rifacimento del pavimento. Se all’interno del Battistero, si guarda in alto, si vede un’apertura sormontata da una piccola “lanterna”. Come dice anche il Villani, alla base di quella lanterna c’era un foro che a mezzogiorno preciso lasciava passare un raggio di sole che andava a colpire il centro di quello zodiaco proprio nel giorno di San Giovanni, cioè il 24 giugno di ogni anno. Tutto ciò ci fa pensare che esistesse una prima scuola di astronomia nella nostra Firenze già nell’Alto Medioevo. Forse nelle notti terse e fredde del primo millennio, seguendo l’insegnamento arabo, Strozzo Strozzi con gli altri scienziati fiorentini avrà scrutato da una torre vicina al Battistero, la moltitudine stellare per capire il mistero dell’universo (E. L. Pecchioni).




 Dal mio libro Firenze nel cuore  Visitare la Firenze medievale per scoprire la Firenze di oggi, Il Centro storico Morgana Edizioni

 

mercoledì 12 maggio 2021

Un saluto a Luigi Bellini

 Museo Luigi Bellini

L’Arte è la cronaca più bella dei secoli e la cultura è la linfa di un popolo, così recitava  Luigi Bellini, restituendo all’Arte il suo valore educativo.

Si è spento nella notte del 7 maggio Luigi Bellini, uno dei più autorevoli antiquari di Firenze. Non ha retto alle insidie del suo cuore che da anni non gli dava tranquillità.  Nipote dell’omonimo Luigi che nel Dopoguerra si adoperò moltissimo per la ricostruzione del Ponte Santa Trinita, aveva creato la Biennale dell’antiquariato a Firenze. Dal 2008, aveva aperto le porte del suo palazzo sul Lungarno Soderini, una casa-museo che ospita una tra le più prestigiose collezioni private d’Europa.

La Galleria  si presenta al visitatore come un crogiuolo di arte, storia e letteratura. È uno scrigno in cui sono racchiusi tesori inestimabili di Luigi Bellini,  cultore delle Arti, storico attento ai cambiamenti epocali, letterato alla ricerca dell’interazione tra arte e mito e tra arte e letteratura, ricercatore dell’oggetto eccezionale; una casa museo, dove ogni oggetto non è posto casualmente ma acquista una sua ragion d’essere nel rapporto con gli altri oggetti che tracciano percorsi dalla storia romana al Settecento; un libro aperto sotto gli occhi del visitatore che osserva, scruta e ricostruisce, attraverso gli arredi e gli arazzi di pregio il gusto di un’epoca, identificandone la manualità  e ricrea con l’immaginazione una realtà quotidiana, che nessun libro potrà mai regalarci. La sistemazione degli interni risponde a un preciso gusto estetico; ogni oggetto suscita meraviglia per la sua preziosità e al contempo denota l’amore di chi nutre per l’arte una sorta di riverenza e si mostra sensibile a condividere tali tesori con altri, aprendo la propria casa al pubblico. La dimora, di origine quattrocentesca, conserva il fascino d’altri tempi, negli arredi, nei soffitti, nei lampadari, unici nel proprio genere, nei velluti, rasi e broccati, nelle opere d’arte: una veduta del Canaletto, una scultura del Ghiberti, una Madonna di Della Robbia, un dominante Beato Angelico, leggiadri ricami, testimoni di un’arte raffinata e l’occhio viene maliziosamente catturato dal nudo di Paolo Schiavo che colpisce per la sua modernità. Le diverse stanze accomunano oggetti che di volta in volta diventano spaccato di vita domestica, esempio di un gusto estetico e raffinato, tipico di chi conosce l’arte e la conserva con devozione. Ogni oggetto comunica un’emozione e realizza col visitatore una lezione che diventa interattiva tra arte, storia, musica e letteratura; la simbiosi con le cose si rafforza in una trasmissione di percezioni e di emozioni, in un rapporto palmare con artisti e opere che raccontano aneddoti, curiosità, momenti di vita e storie coinvolgenti fino a rendere il visitatore partecipe del tutto, perché l’Arte non è esteriore all’uomo ma è il suo stesso essere, la sua linfa vitale. L’insieme, sobrio e raffinato, accoglie l’ospite con discrezione perchè la vera ricchezza è nello spirito di chi di generazione in generazione si è prodigato per l’arte e ne ha valorizzato e conservato stili che parlano di varie epoche attraverso forme diverse nell’espressione e nella manifattura ma tutte concorrenti a esplicitare il concetto che l’Arte è storia di uomini, di epoche, di artisti e di artigiani in una continuità che pone l’antico in stretto dialogo col moderno e rende il visitatore partecipe di ogni tempo. Luigi Bellini, al quale va il nostro ringraziamento, non poteva lasciarci un dono più bello, nella piena consapevolezza che l’Arte deve essere patrimonio collettivo, ma essenzialmente dei giovani e studenti tutti, che mai come oggi hanno bisogno di nutrire lo spirito di sapere e di verità.


 Luigi Bellini, Antiquario

giovedì 8 aprile 2021

Dante e la storia di Firenze

                               Domenico di Michelino  (1465) La Commedia illumina Firenze
 
 

Una delle zone più interessanti di Firenze per capire i cambiamenti che la città ha subito dalle origini a oggi, è  l’area che comprende Piazza del Duomo e Piazza San Giovanni.

Verso la fine del Duecento, per allestire il cantiere per la costruzione della Cattedrale, fu richiesto dalla Repubblica l’abbattimento di molte case in cambio di un congruo indennizzo, ma non tutti furono solleciti a cedere le loro proprietà. I Bischeri, ad esempio, una delle famiglie più ricche e in vista della città, che possedevano numerose proprietà tra l’attuale Piazza del Duomo e via dell’Oriuolo, non accettarono subito, sperando così di elevare l’offerta, ma forse per cattiva sorte, accadde che una notte, a causa di un incendio, la casa bruciasse e perdessero ogni avere. C’è chi dice invece che furono forzosamente costretti a cedere la proprietà per una cifra inferiore a quella dei vicini, ma come si sa “chi troppo vuole, nulla stringe” e dalle tristi vicende dei Bischeri, derivò l’espressione beffarda O Bischero! per dire di persona poco assennata. Sulle antiche case dei Bischeri, al n. 10, in piazza del Duomo, fu costruito il Palazzo Strozzi di Mantova o Guadagni-Sacrati, sede della Presidenza della  Regione Toscana. La targa del Canto de’ Bischeri posta all’inizio di via dell’Oriuolo, ne ricorda la vicenda. Un tempo questo tratto di strada si chiamava via Buia, dato che  il sole non vi penetrava a causa di tettoie sporgenti  e strutture di copertura.

Stiamo  raccontando  aneddoti e storielle che, anche se conosciuti da molti, tra realtà e fantasia, rendono frizzante e accattivante la storia di Firenze.

Molte strade convergono in Piazza del Duomo e alcune hanno una storia  curiosa: “Via della Canonica” che si snoda tra via dello Studio e via del Campanile, esisteva già fin dal 724 ed era costituita da un complesso di case che, avanzando verso la piazza, lasciavano uno spazio ristretto lungo il fianco della Cattedrale, dove era situato il cimitero, da cui forse il precedente nome di “via dello Scheletro”. Le case, con i tipici sporti medievali in legno, servivano da abitazione per il clero e per gli uffici ecclesiastici. Il quartiere della Canonica godeva di alcuni privilegi; dal 1425 al 1754 godette dell’immunità, per cui chiunque vi si fosse rifugiato, sarebbe stato immune dall’arresto, anche se colpevole di  reato, e le autorità cittadine non potevano entrare in questa zona senza l’autorizzazione del Capitolo.

Vicino all’Arciconfraternita della Misericordia, nello spazio compreso tra piazza del Duomo e via delle Oche, si trova via del Campanile”.  Questa strada aveva anticamente il nome di “via della Morta” e poi di “via della Morte” per una strana storiella. Una certa Ginevra degli Amieri, moglie di Francesco Agolanti, si era innamorata di Antonio Rondinelli. Durante la peste del 1400, creduta morta, fu seppellita in tutta fretta nel camposanto del Duomo, ma dato che la sua era solo una morte  apparente, durante la notte  si risvegliò, uscì dal sepolcro e  si recò a casa dal marito, che abitava  in via de’ Calzaiuoli. Questi, credendo che fosse un fantasma, la cacciò via, e lo stesso successe con familiari e conoscenti, fino a quando bussò alla casa di Antonio Rondinelli che l’accolse con amore e, dato che creduta morta, non era stata soccorsa, la chiesa la ritenne libera e lei convolò a nozze con l’uomo che amava.

Vicino a piazza del Duomo, da via Bonizzi a via de’ Maccheroni si trova Piazza delle Pallottole. Gli Otto di Balìa avevano vietato in molti luoghi il gioco delle pallottole, una specie di gioco di bocce, ma specialmente vicino ai luoghi religiosi, tuttavia lo consentivano in Piazza delle Pallottole. Fra piazza delle Pallottole e via dello Studio, si trova una lapide ottocentesca con la scritta “Sasso di Dante”; forse lì si sedeva Dante, come si racconta, per osservare i lavori della costruzione della Cattedrale. Un giorno, mentre egli era seduto su quel sasso, un passante gli chiese: «Oh Dante, icchè ti piace di più da mangiare?». «L’ovo», rispose il Poeta. L’anno dopo, la stessa persona ripassò di lì e lo ritrovò ancora seduto sul suo sasso, sempre assorto e pensieroso e gli chiese: «Co’ icchè?» e Dante: «Co i’ sale!».

In piazza San Giovanni, davanti alla porta nord del Battistero, si trova la colonna di San Zanobi alla quale è legata un’altra storia. Il 26 gennaio del 429, durante il passaggio delle reliquie di San Zanobi dalla Cattedrale di San Lorenzo a Santa Reparata, un olmo secco, a contatto col sarcofago rinverdì, come si racconta, e la cosa stupì molto, perché era inverno. Dall’albero fu scolpito un crocifisso, conservato nella chiesa di San Giovannino dei Cavalieri in via San Gallo. Il “miracolo dell’olmo fiorito” si trova in un libro corale del Duomo (XV sec.), ora conservato nella Biblioteca Laurenziana.

Una lastra rotonda di marmo bianco, posta dietro il Duomo, indica il punto in cui, il 17 febbraio del 1600, a causa di un fulmine, cadde la grossa palla di rame dorato, fusa dal Verrocchio, del peso di 4.368 libbre (circa 1.980 chilogrammi) che era stata posta sulla lanterna del cupolone nel 1468. La palla, rotolando dalla sommità della cupola lungo i costoloni, cadde esattamente nel punto ricordato dalla lapide. Due anni dopo, per ordine di Ferdinando I, la sfera fu ricollocata al suo posto e protetta da un parafulmine.

In Piazza del Duomo sono collocate molte targhe che testimoniano i suoi cambiamenti e conservano la memoria dei personaggi illustri che in vari periodi hanno in essa vissuto e operato.

Al numero 8 si legge:

                      IN QUESTE CASE DELL’OPERA CHE LO EBBE ARCHIVISTA E STORICO

E CHE OGGI PONE QUESTA MEMORIA ABITÒ CESARE GUASTI

DAL MDCCCLIII ALL’ANNO DELLA MORTE MDCCCLXXXIX

E QUI ALL’OMBRA DEL MIRABILE TEMPIO MEDITÒ QUELLI SCRITTI

PE’ QUALI IL SUO NOME È CARO ALL’ITALIA

MDCCCLXXXXVII

 Nella prima metà dell'Ottocento furono compiuti interventi urbanistici nell'area a sud del Duomo per ampliare la piazza. Dal 1826 al 1830 gli interventi dell'architetto Gaetano Baccani portarono all’abbattimento di antiche costruzioni e all’edificazione di tre grandi edifici al numero 14 a, destinati alle abitazioni dei Canonici. Il palazzo centrale venne arricchito da una balconata sorretta da quattro colonne, che incorniciano due nicchie con le statue di Filippo Brunelleschi (1377-1446) e Arnolfo di Cambio (1240-1310), eseguite da Luigi Pampaloni (1791-1847). A ricordo si leggono su ogni monumento epigrafi che ne esaltano la magnificenza.

Al numero 29 rosso si legge:

 

IL CIRCOLO FIORENTINO DEGLI ARTISTI CELEBRANDO

IL QUINTO CENTENARIO DELLA NASCITA DI DONATELLO

QUI NELLE CASE GIA’ DEI TEDARINI

DOVE FURONO LE BOTTEGHE DEL SOMMO SCULTORE

QUESTA MEMORIA PONEVA IL XXVII IN DICEMBRE MDCCCLXXXVI

 Al numero 18:

D.O.M. PETRUS LEOPOLDUS ARCHIDUX AUSTRIAE M.E.D.

FRANCISCI I MED. DONUM MAGNIFICENTIORI

EXTRUCTO OPERE COMULAVIT A.D. MDCCLXXXI

E al numero 18 si celebra “Il Paradiso Dantesco”:

       Vergine madre figlia del tuo figlio

Umile ed alta più che creatura

Termine fisso d’eterno consiglio

 

Tu se’ colei che l’umana natura

Nobilitasti sí che il suo fattore

Non disdegnò di farsi sua fattura

 

Nel ventre tuo si raccese l’amore

Per lo cui caldo nell’eterna pace

Cosí è germinato questo fiore

(Paradiso, XXXIII, 1-9)

 

Entrando nel Duomo, nella navata sinistra, accanto a uno degli ingressi laterali, si può ammirare un dipinto di Domenico di Michelino  (1465) La Commedia illumina Firenze che raffigura Dante che regge la Divina Commedia.  La lettura di questo dipinto è molto interessante, poiché presenta la concezione del cosmo nel Medioevo. A sinistra di chi guarda è l’Inferno, sullo sfondo la montagna del Purgatorio, circondata dalle acque e sulla destra Gerusalemme, raffigurata come era Firenze nel 1465. La terra è rappresentata al centro del cosmo e intorno ad essa ruotano le sfere celesti, corrispondenti, secondo la concezione aristotelica alle sedi dei pianeti allora conosciuti, mentre l’ultima sfera è quella delle stelle fisse. È curioso notare come il numero dei cieli non corrisponda a quello proposto da Dante, in numero di dieci, bensì a quello della cosmologia medievale, una concezione dell’universo che verrà messa in discussione dal sistema copernicano e dalle scoperte astronomiche di Galileo

 Questa è Firenze: una lettura visiva di ciò che la città è stata nel passato, di ciò che è oggi, orgogliosa dei suoi illustri figli che trasmettono a noi lo spirito della creatività e dell’ingegno.

 La nostra passeggiata per ricordare Dante e leggere la storia di Firenze attraverso le targhe continua e avremo molto da raccontare.

 Dal mio libro “Firenze nel cuore” Visitare la Firenze medievale per scoprire la Firenze di oggi. Il Centro storico  Morgana Edizioni, 2012

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

giovedì 25 marzo 2021

Per ricordare Dante. La storia di Firenze nei suoi versi.

Fu grazie alle Arti e alla pratica del commercio che Firenze s’ingrandì. Ma nella Firenze ricca, diventavano sempre più frequenti gli scontri tra le fazioni politiche dei Guelfi (filopapali) e dei Ghibellini (filoimperiali) e dopo la cacciata di questi ultimi, tra la fazione dei Bianchi e quella dei Neri. Lotte che purtroppo segnarono il declino di Firenze.

Firenze fu teatro di lotte tra le famiglie più in vista. Cruenti furono gli scontri tra gli Amidei, antica e nobile famiglia ghibellina di primo cerchio e i Buondelmonti, di parte guelfa che portarono all’abbattimento di ben 36 case-torri. La nobile famiglia dei Buondelmonti, originaria del contado fiorentino, si era trasferita in città, in Borgo Santi Apostoli, che sarebbe stato più quieto se di novi vicin fosser digiunu…,  dirà Dante (Pd. XVI, 135), quando Firenze nel 1135 ne distrusse il castello in località Montebuoni.  Buondelmonte era allora fidanzato con una fanciulla di casa Amidi ma istigato da Gualdrada Donati (moglie di Forese Donati il Vecchio), l’abbandonò, per sposare Beatrice Donati. L’affronto fu  gravissimo e nacquero in città molte discordie che portarono alla nascita delle due fazioni avverse dei Guelfi e dei Ghibellini. Gli Amidei offesi, decisero di vendicarsi, e fu in quell’occasione che Mosca dei Lamberti, importante famiglia ghibellina, loro consigliere, pronunciò la celebre frase “Cosa fatta capo ha”, personaggio che Dante cita nella Commedia, perché seminatore di discordie:

E un ch’avea l’una e l’altra man mozza,

levando i moncherin per l’aura fosca,

sì che ‘l sangue facea la faccia sozza,

gridò: Ricordera ‘ti anche del Mosca,

che disse, lasso!, “capo ha cosa fatta”,

che fu mal seme per la gente tosca.

(Inferno, XXVIII, 103-108)

 Il giorno di Pasqua del 1216, gli Amidei, con alcuni alleati, attesero il passaggio di Buondelmonte in piazza del Duomo (c’è chi dice in Piazza della Signoria, chi sul Ponte Vecchio), lo assalirono e lo uccisero a colpi di mazza e pugnale. Poiché il governo cittadino, che avrebbe dovuto punire gli autori dell’atroce delitto, era fedele all’imperatore Ottone IV, e quindi, di “Parte guelfa”, gli Amidei e le famiglie, loro alleate, per sottrarsi alle sanzioni, si inserirono nella lotta politica, mettendosi dalla parte della casa di Svevia con il nome di “Parte ghibellina”. Dante, a ragione, gli rimprovera questa scelta, dicendo …quanto mal fuggisti / le nozze sue per li altrui conforti!  (Pd. XVI, 140-141).

L’uccisione di Buondelmonte fece molto scalpore. Matteo Bandello lo ricorda nella sua novella: Buondelmonte de’ Buondelmonti si marita con una e poi la lascia per prenderne un'altra, e fu ammazzato. I cronisti, Dino Compagni e Giovanni Villani nelle Cronache fiorentine scrivono: La mattina di Pasqua Buondelmonte che veniva in centro dal quartiere d’Oltrarno, vestito nobilmente di nuovo, di roba tutta bianca e in su uno palafreno bianco giunto ai piedi del palazzo Vecchio fu assalito da Schiatta degli Uberti, Mosca dei Lamberti e Lambertuccio Amidei, quindi colpito a morte. Il pittore Saverio Altamura (1826-1897), nel 1860, ne raffigurò i funerali in una tela che gli era stata commissionata dal collezionista napoletano Giovanni Vonwiller.

Questi fatti sono a tutt’oggi testimoniati dalla presenza in via delle Terme dalla Torre dei Buondelmonti e a due passi da Piazza della Signoria, in via Por Santa Maria, dalla Torre degli Amidei sotto il cui stemma, riportati in un’incisione sul marmo, si leggono i seguenti versi:

La casa di che nacque il vostro fleto.

Per lo giusto disdegno che v’ha morti

e puose fine al vostro viver lieto.

era onorata essa e i suoi consorti.

(Paradiso, XVI, 136-139)

Ma come erano nate le fazioni avverse dei Bianchi e dei Neri? Scrive Dino Compagni: Queste due parti, Neri e Bianchi, nacquero d’una famiglia che si chiamava Cancellieri, che si divise: per che alcuni congiunti si chiamarono Bianchi, gli altri Neri; e così fu divisa tutta la città.  

Lungo via de’ Calzaiuoli, ogni elemento  pone in parallelo il passato e il presente e la Commedia di Dante, ci guida, richiamando alla memoria: personaggi, situazioni, storia e politica.

Via de’ Calzaiuoli ha subito negli anni molte trasformazioni. Edifici e negozi sono scomparsi per far posto ad altre costruzioni e dare un’impronta più moderna alla strada. Intorno al 1835, il Comune realizzò molte opere di ristrutturazione urbana e di abbellimenti. Merita menzione un’iniziativa privata, il “Bazar Buonajuti”, primo vero bazar di Firenze, una meraviglia per l’epoca e uno dei primi edifici di quel genere in Italia. Le botteghe di vari articoli e il caffè, dove si riuniva una clientela sceltissima, ne fecero un elegante luogo di ritrovo. La struttura fu realizzata come un’enorme piazza al coperto su due piani, nei locali attualmente occupati dalla catena Coin e dove dal 1907 fino al 1988 era presente “Duilio 48”. La strada stessa è un segno tangibile del mutamento urbano della città; per ottenere i 14 metri di larghezza attuali, furono demoliti e ridimensionati un gran numero di edifici e tra questi una torre ben conservata, proprio all'angolo con piazza del Duomo.

Sui muri che costeggiano la strada, sono affisse sia a destra che a sinistra alcune targhe, le cui scritte ci rimandano alla Firenze medievale e ai suoi cambiamenti urbani. Sulla targa al numero 10 si legge:

CHE DA MEZZOGIORNO A PONENTE

QUI VOLGESSE IL PRIMO CERCHIO DELLE MURA DI FIRENZE

LE FONDAMENTA RITROVATE CONFERMANO.

 La targa si riferisce al ritrovamento delle fondamenta delle mura della cerchia romana. Proprio accanto, al numero 11 r si trova palazzo dei Cavalcanti, e la scritta della targa affissa su di esso ci riporta al sommo poeta:

…se per questo cieco

carcere vai per altezza d’ingegno

mio figlio ov’è? e perché non è teco?

ed io a lui: da me stesso non vegno:

colui che attende là per qui mi mena

forse cui guido vostro ebbe a disdegno.

(Inferno, X, 58 - 63)

 

A parlare è Cavalcante Cavalcanti, padre di Guido Cavalcanti, poeta del Dolce Stil Novo. Dante lo pone nel X canto dell’Inferno dove si trovano gli eretici e gli epicurei e tra questi, Farinata degli Uberti. Cavalcante apparteneva a una nobile casata di parte guelfa, coinvolta e travolta dalla sconfitta di Montaperti. Farinata degli Uberti era di famiglia ghibellina. Era in uso a quel tempo combinare matrimoni tra famiglie avverse per riconciliarsi, ecco perché Guido Cavalcanti sposò Bice Uberti. Dante considerava Guido, amico e maestro, ma il 24 giugno del 1300, in qualità di priore di Firenze, fu costretto a mandarlo in esilio, con i capi delle fazioni avverse dei bianchi e dei neri, a causa di nuovi scontri. La stessa sorte toccò a Dante che morì esule a Ravenna nel 1321.

E riprendiamo la passeggiata con i versi del sonetto di Dante “Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io”:

Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io / fossimo presi per incantamento, / e messi in un vasel ch’ad ogni vento / per mare andasse al voler vostro e mio, / sì che fortuna od altro tempo rio / non ci potesse dare impedimento, / anzi, vivendo sempre in un talento, / di stare insieme crescesse ’l disio. / E monna Vanna e monna Lagia poi / con quella ch’è sul numer de le trenta / con noi ponesse il buono incantatore: / e quivi ragionar sempre d’amore, / e ciascuna di lor fosse contenta, /sì come i’ credo che saremmo noi.

 Dal mio libro “Firenze nel cuore” Visitare la Firenze medievale per scoprire la Firenze di oggi. Il Centro storico  Morgana Edizioni, 2012