Théodore Géricault, La zattera della Medusa, primo schizzo,1818 |
Alla
luce degli ultimi avvenimenti non posso non pensare a quel quadro che aveva
suscitato in me un profondo sgomento e che mi aveva indotto a spiegare ai miei
studenti che il diritto alla vita è sacro e inviolabile. Quel quadro, infinite
volte analizzato, si rivestiva di pietà cristiana, di fratellanza, di
solidarietà, di civiltà, perché essere civili vuol dire acquisire il senso
della comunanza e allungare l’occhio verso il bisognoso in un incrocio continuo
di mani. “La zattera della Medusa” di Géricault appare oggi in tutta la sua
crudezza e modernità. Con una struttura ascensionale sono rappresentati i corpi
di coloro che chiedono aiuto e in cima un uomo di colore che tenta di richiamare
l’attenzione dei soccorritori, che purtroppo non arrivarono. La scena è
agghiacciante: corpi seminudi, corpi che si reggono a vicenda, corpi con la
parola spenta per sempre. Basta poco per rapportarsi alla nostra realtà. Allora
eravamo nel 1816 e a distanza di anni quella triste vicenda si ripete. Il
nostro Mediterraneo pullula di cadaveri il cui numero si perde tra le onde
travolgenti, affannate dal pianto di bambini cui la vita è negata. Tra continue
risacche, il mare custodisce migliaia di corpi senza nome, mentre ogni
possibilità di vita si chiude col divieto di accesso.
Eppure
veniamo da una cultura dove l’accoglienza era un elemento primario. Dove è
finita la nostra cultura classica pregna di valori, oggi, costantemente elusi?.
Memori
del nostro passato, quando eravamo costretti a lunghe file in altri porti, in
terre lontane, delle sciagure che ci
hanno devastato in nome della razza o di altre terribili elucubrazioni, della
parola “Libertà” che tante vite e sacrifici è costata; consapevoli che nessuno,
con parole o fatti, potrà mai toglierci la dignità di sentirci pari agli altri,
nè potrà ergersi a giudice a nome di tutti, che mai potrà cancellare in noi i
principi di uguaglianza e di solidarietà (oggi purtroppo opinabili) tanto
desiderati e ottenuti, che hanno cambiato il corso dell’umanità, dobbiamo
uscire dal lungo letargo e riprendere in mano la nostra cultura e i suoi valori,
base della nostra civiltà, consapevoli che chiunque si arroghi tali falsi diritti
non lavora per la comunità, non conosce le radici della nostra storia, nefando al
genere umano, avanza con prepotenza e tracotanza, privo di quel “rispetto” che
ci ha reso e che ci rende uomini di sano intelletto.
L’Italia
in questo momento è come una nave frantumata dal ghiaccio, che ci chiede di spezzare
gli argini del disorientamento e di dialogare con il nostro passato contro chi
tenta di affossarlo. La storia ce lo impone e ci richiama alla
salvaguardia dei nostri valori, contro
chi vorrebbe ridurci tutti ad albatri con le ali spezzate: Per dilettarsi, sovente, le ciurme / catturano degli àlbatri, marini /
grandi uccelli, che seguono, indolenti / compagni di viaggio, il bastimento /
che scivolando va su amari abissi. / E li hanno appena sulla tolda posti / che
questi re dell'azzurro abbandonano, inetti e vergognosi, ai loro fianchi /
miseramente, come remi, inerti / le candide e grandi ali. Com'è goffo / e imbelle
questo alato viaggiatore! / Lui, poco fa sì bello, com'è brutto/ e comico! Qualcuno con la pipa / il becco qui
gli stuzzica; là un altro/ l'infermo che volava, zoppicando / scimmieggia.
Come il principe dei nembi /è il Poeta che, avvezzo alla tempesta,/ si ride dell'arciere: ma esiliato/ sulla terra, fra scherni, camminare /non può per le sue ali di gigante. ( C. P. Baudelaire, L’albatro da I fiori del male)
Come il principe dei nembi /è il Poeta che, avvezzo alla tempesta,/ si ride dell'arciere: ma esiliato/ sulla terra, fra scherni, camminare /non può per le sue ali di gigante. ( C. P. Baudelaire, L’albatro da I fiori del male)
Dobbiamo
forse credere che non abbiamo più armi per difenderci e per recuperare
l’identità perduta? Che nulla più ci attrae di quel corpo dell’Italia che erano
i suoi valori? Che siamo albatri-naufraghi ciechi, assuefatti, sepolti da un
cumulo di immondizia e da muri che si sgretolano e che malauguratamente si
elevano, tristi metafore della realtà che ci circonda? Vogliamo forse che la
cultura resti senza difesa nelle mani di chi da troppo tempo non riesce a
capirne l’importanza vitale, quale spirito del nostro Paese?.
Quando
i giovani gridano e a ragione la propria rabbia, per la mancanza di una giusta
collocazione; quando i lavoratori reclamano tutela e diritti; quando i nostri
monumenti cadono a pezzi e crolla con essi la nostra storia e la nostra
identità; quando all’essere si preferisce l’avere; quando gli interessi di uno
solo o di pochi sopravanzano e di gran lunga il bene del paese; quando
territori e persone, colpiti da cataclismi, vengono abbandonati; quando la scuola,
senza adeguati sostegni, non assolve il compito di educatrice; quando si cerca
un’informazione che sia specchio reale del paese, quando si raccoglie per
strada la morte dei più deboli e il lezzo dell’abbandono, quando ci guardiamo
intorno e non ci riconosciamo, allora ci rendiamo conto con amarezza che questo
è il paese dell’apparenza che ha fatto dell’immagine e delle false promesse, la
propria sostanza, e che bisogna con urgenza risvegliarsi, recuperare l’orgoglio
e l’autostima e agire consorziati per risolvere i veri problemi , iniziando
dalla povertà e dal futuro dei giovani.
È tempo,
alla luce della ragione, di riascoltare ognuno la propria coscienza e di sentirci
accomunati, contro subdoli cambiamenti, in un’unica e ampia famiglia, perchè
nella la sorte di ogni singolo vive
l’intera collettività, nell’infinito concetto di umanità.
Alla
luce di quanto sta avvenendo, il “Bel Paese” oggi appare come un’utopia velata
di malinconia, un mare di ghiaccio in
frantumi, che per sottrarsi alla deriva, chiede a ciascuno di noi di disgelarsi.