giovedì 19 maggio 2011

Convergenze 2. Quando la poesia incrocia la pittura: Pascoli e Munch




Giovanni Pascoli

É  nell’età più adulta che si riscoprono i poeti e si stabilisce con i loro versi una piena sintonia.
La voce è la rappresentazione visiva della condizione esistenziale di Pascoli e dell'uomo.

La voce


Edvard Munch,  Morte della madre, 1899

La voce è per il poeta un viaggio a ritroso  nella propria vita; un vaglio delle circostanze avverse, un bisogno di ritrovare persone, affetti e luoghi; la rincorsa di un sogno impossibile, espresso con parole che fotografano il suo sentire.

C’è  una voce nella mia vita,
che avverto nel punto che muore;
voce stanca, voce smarrita,
col tremito del batticuore:

voce d’una accorsa anelante,
che al povero petto s’afferra
per dir tante cose e poi tante,
ma piena ha la bocca di terra:

tante tante cose che vuole
ch’io sappia, ricordi, sì…sì…
ma di tante tante parole
non sento che un soffio…Zvanì

Quando avevo tanto bisogno
Di pane e di compassione,
che mangiavo solo nel sogno,
svegliandomi al primo boccone;

una notte, su la spalletta
del Reno, coperta di neve,
dritto e solo (passava in fretta
l’acqua brontolando, Si beve?);

dritto e solo, con un gran pianto
d’avere a finire così,
mi sentii d’un tratto d’accanto
quel soffio di voce…Zvanì

Oh! La terra, com’è cattiva!
La terra, che amari bocconi!
Ma voleva dirmi, io capiva:
-No…no… Di’ le devozioni!

Le dicevi con me pian piano,
con sempre la voce più bassa:
la tua mano nella mia mano:
ridille! Vedrai che ti passa.

Non far piangere piangere
(ancora!) chi tanto soffrì!
Il tuo pane, prega il tuo angelo
Che te lo porti… Zvanì

Una notte dalle lunghe ore
(nel carcere), che all’improvviso
dissi- Avresti molto dolore,
tu, se non t’avessero ucciso,

ora, o babbo!- che il mio pensiero,
dal carcere, con un lamento,
vide il babbo nel cimitero,
le pie sorelline in convento:

e che agli uomini, la mia vita,
volevo lasciargliela lì…
risentii la voce smarrita
che disse in un soffio… Zvanì

Oh! La terra come è cattiva!
Non lascia discorrere, poi!
Ma voleva dirmi, io capiva:
-Piuttosto di’ un requie per noi!

Non possiamo nel camposanto
Più prendere sonno un minuto,
chè sentiamo struggersi in pianto
le bimbe che l’hanno saputo!

Oh! La vita mia che ti diedi
Per loro, lasciarla vuoi qui?
Qui, mio figlio? Dove non vedi
Chi uccise tuo padre… Zvanì?...-

Quante volte sei rinvenuta
Nei cupi abbandoni del cuore,
voce stanca, voce perduta,
col tremito del batticuore:

voce d’una accorsa anelante
che ai poveri labbri si tocca
per dir tante cose e poi tante;
ma piena di terra ha la bocca:

la tua bocca! Con i tuoi baci,
già tanto accorati a quei dì!
a quei dì beati e fugaci
che aveva i tuoi baci… Zvanì

che m’addormentavano gravi
campane col placido canto,
e sul capo biondo che amavi,
sentivo un tepore di pianto!

che ti lessi  negli occhi, ch’erano
pieni di pianto, che sono
pieni di terra, la preghiera
di vivere e d’essere buono!

Ed allora, quasi un comando,
no, quasi un compianto, t’uscì
la parola che a quando a quando
mi dici anche adesso… Zvanì

Da Canti di Castelvecchio


La poesia è intessuta di voci lessicali che si ripetono e che sottolineano i suoi stati d’animo che emergono in toni drammatici e che  esprimono il  suo dolore per ciò che sarebbe potuto essere e che non è stato.


 

Edvard Munch, Il grido, 1893


La voce  di Giovanni Pascoli  è sempre stata per me  eco di voci del passato, spinte propulsive al ricordo e alla riflessione in un presente spesso drammatico.

Sembra un colloquio quello del poeta con la voce che lo riporta bambino, alla sua infanzia felice. Ma il dialogo si muta in  soliloquio e poi in un  monologo,  in cui emerge  struggente la rievocazione di un tempo lontano e di una voce salvifica.

Il rapporto di Pascoli con Munch si coglie nella capacità di rappresentare in sincronia, con la parola e i colori l’esistenza cupa  dell’uomo che grida  al mondo la sua angoscia. Quel grido diventa in entrambi voce, singulto, lamento, pianto, disperazione…

Pennellate infinite, colori pastosi, strade senza meta; una solitudine che si spegne nel grido di dolore informe, fortemente espressivo, accanto allo scorrere dell’acqua.
La morte del padre è per  Edvard Munch un colpo da cui non si riprenderà e  la sua visione della vita diventerà sempre più cupa e disperata. A questo proposito egli scrive: E io vivo coi morti; mia madre, mia sorella, mio padre, lui soprattutto. Tutti i ricordi, le minime cose mi ritornano a frotte. Lo rivedo così come lo vidi, per l'ultima volta quattro mesi fa quando mi ha detto addio sulla banchina; eravamo un po' timidi nei confronti l'uno dell'altro, non volevamo tradire la pena che la separazione ci causava. Quanto ci amavamo malgrado tutto, quando si tormentava la notte per me, per la mia vita, perché non potevo condividere la sua fede . Una visione tragica della vita che mai lo abbandonerà, che egli renderà protagonista della sua arte e per la quale dirà: Dal mio corpo in putrefazione cresceranno dei fiori e io sarò dentro di loro: questa è l'eternità.

Sia in Pascoli che in Munch incombe quindi l’idea della morte.

L 'urlo è il   simbolo dell'angoscia e dello smarrimento dell’uomo che in Munch nasce da un’esperienza di vita: l’artista si trovava a passeggiare con degli amici su un ponte della città di Nordstrand (oggi quartiere di Oslo), quando venne pervaso dal terrore che così descrive: Camminavo lungo la strada con due amici quando il sole tramontò, il cielo si tinse all'improvviso di rosso sangue. Mi fermai, mi appoggiai stanco morto ad un recinto. Sul fiordo neroazzurro e sulla città c'erano sangue e lingue di fuoco. I miei amici continuavano a camminare e io tremavo ancora di paura... e sentivo che un grande urlo infinito pervadeva la natura.
Quell’urlo colpisce ancora chi guarda l’opera e vi legge una condizione di vita reale: l’indifferenza della società e  l’alienazione dell'uomo.
La funzione comunicativa è fortemente espressa dal simbolismo della forma, delle linee, dei colori e la luce dà l’impressione di una fotografia che coglie della scena il momento più drammatico.
La poesia di Pascoli è uno strumento per leggere la realtà e acquisire la capacità di vedere oltre.
L’arte  di Munch è un mezzo per gridare al mondo il dramma dell’uomo.

Molte sono le affinità tra Munch e Pascoli.
I colori sono per Munch ciò che la parola è per Pascoli.

Ambedue, da piccoli, furono colpiti da numerosi lutti familiari; un dramma che Munch esprime  mediante l'uso di colori violenti e irreali, linee sinuose e continue, immagini deformate e Pascoli con l'uso di una scelta lessicale inusuale.
Una pittura e una poesia di forte impatto emotivo, capaci di indurci a  un’indagine speculare su di noi, sull’uomo e sulla realtà.


                                                     Anna Lanzetta


Giovanni  Pascoli (San Mauro di Romagna, 1855-Bologna, 1912).
Edvard Munch (Loten, 1863-Ekely, 1944).

Vedi: martedì 5 aprile
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